I rave party sono raduni sporadici e improvvisati di giovani amanti della musica techno, acid house e psy-trance. Questi giovani individuano un posto isolato, magari un capannone industriale abbandonato, e tramite canali social come Telegram si danno appuntamento lì per una notte o per più giorni di fila. Una volta lì, questi ragazzi ascoltano musica stordente – si parla infatti di «muri di casse» – e si divertono a ballare «fuori dal mondo» anche per un intero giorno, spesso «aiutati» dall’uso di droghe pesanti. Ovviamente questi raduni sono illegali, perché avvengono senza autorizzazioni e senza nessun controllo per quanto concerne la sicurezza.
I rave party avvengono così come li conosciamo almeno dagli anni ’80. In Europa c’è una importante tradizione a riguardo, e non sono pochi i libri e le inchieste dedicate al fenomeno, che ora è diventato di stretta attualità in seguito alla decisione del Governo Meloni di emanare un decreto che inasprisce le pene per chi organizza simili eventi underground. Il decreto del Governo e la mano ferma del ministro dell’Interno Piantedosi hanno trovato l’adesione del mondo politico e culturale del centrodestra – sia pure con qualche distinguo –, mentre ha ricompattato l’intera galassia del centrosinistra, che ha criticato duramente il decreto anti-rave con una inedita unanimità tra tutte le anime del centrosinistra, solitamente diviso su tutto.
Il decreto ha avuto anche un altro «merito», ovvero quello di risvegliare il torpore civile degli artisti e degli intellettuali, che in larga misura si sono schierati contro il decreto. Insomma, il Paese è tornato a dividersi proprio come capitava durante i Governi di Berlusconi. Erri De Luca, tanto per dire, ha parlato sul Fatto quotidiano di ieri di «schedatura di massa dei giovani», mentre Il Giornale, l’altro ieri, ha sfoggiato un titolo non proprio gradevole: «Sistemati gli sballati, ora tocca ai fannulloni». Toni e parole che ci riportano dritti al ventennio berlusconiano.
Ma ha ragione chi considera irrinunciabile garantire l’ordine, la legge e la sicurezza applicando rigorosamente le leggi in vigore, oppure chi auspica una maggiore elasticità delle leggi rispetto a fenomeni sociali e culturali indubbiamente illegali ma pur sempre vitali e fondamentalmente edonistici?
Si parta con la constatazione che i rave sono illegali da sempre, e che mai i Governi italiani hanno avuto atteggiamenti favorevoli rispetto a essi, che avvengono spesso in contesti di scarsa sicurezza e di massiccia diffusione di stupefacenti. La differenza rispetto al passato è che ora il Governo ha preso di petto il problema, e lo ha innalzato prepotentemente, con lo sgombero del rave di Modena, a tema politico-ideologico. In altre parole, il Governo Meloni ne ha fatto motivo identitario dell’azione di governo.
La sinistra parla di «Stato di polizia», magari esagerando, ma pone dubbi che hanno un loro fondamento, perché limitare l’espressione dei giovani, anche laddove non si rispettano valori dominanti e leggi vigenti, è comunque un modo per affermare uno Stato forte con tratti che oscillano tra il paternalistico e l’autoritario.
Nessuno si permetterebbe mai di elogiare lo sballo estremo dei rave come modello di riferimento per le nuove generazioni, ma i rave non sono solo droga e sballo, ma anche musica, divertimento, esperienze di allargamento delle possibilità percettive e sensoriali, modi di condividere dissenso, disagio, smarrimento, forme telluriche e primordiali di contestazione della realtà. Vietare raduni giovanili non è mai una buona idea, perché la nostra società è fin troppo addomesticata e tenuta a bada da controlli di tutti i tipi, tanto che lo stesso impianto liberale risulta ampiamente menomato. Nessuno chiede al Governo di avallare i rave party – che hanno elementi di pericolosità, come testimoniano i morti che ci sono stati –, ma qualsiasi atto repressivo o preventivo venga fatto nella discrezione e nella comprensione delle contraddizioni che attraversano le nuove generazioni, magari evitando di additarli come zombi e di esporli come bersaglio per inscenare una divisione, tutta ideologica, tra destra e sinistra, tra legge e libertà, tra ordine e disordine.
Quei ragazzi non sono mostri o zombi, ma nostri figli. È stato commovente, per esempio, vedere un ragazzino chiedere al poliziotto lì a Modena: «Ma lei ci è mai stato a un rave?». E lui, magari mentendo: «Sì, da giovane». Difficile non carpire in quel breve dialogo un bisogno di parlarsi, di capirsi, di ascoltarsi.
E se a noi questi ragazzi appaiono come mostri o zombi, dobbiamo perlomeno prendere in considerazione la possibilità che anche loro vedano noi adulti in questo modo, presi come siamo da demoni altrettanto pericolosi e, a volte, purtroppo illegali. La cosa che si vuole dire è che un rave party parla anche di noi adulti, dei nostri «valori», del mondo che abbiamo costruito, della nostra incapacità di dialogare con loro, del nostro essere genitori insufficienti e, chissà quante volte, deludenti. Quindi nessuna concessione da parte dello Stato ai rave party, ma s’intervenga con mano delicata, con discrezione, con duttilità, mediando con intelligenza tra ordine e disordine, tra legge e libertà, possibilmente senza dividere pretestuosamente l’opinione pubblica su basi ideologiche. Una vera società aperta liberale si costruisce anche accettando il rischio del pluralismo dei valori – e ovviamente sorvegliando senza punire troppo frontalmente.