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La riduzione dell’iva sui beni di prima necessità, manovra col fiato corto

 
Angela Stefania Bergantino

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Angela Stefania Bergantino

PANE

Indiscrezioni che provengono dall’interno della compagine governativa indicano che nel nuovo Decreto aiuti

Giovedì 28 Luglio 2022, 11:23

Indiscrezioni che provengono dall’interno della compagine governativa indicano che nel nuovo Decreto aiuti ci potrebbe essere un intervento di riduzione dell’Iva su alcuni beni di primo consumo come pane, pasta, latte, prodotti per l’infanzia e medicinali da banco. L’Iva è l’imposta indiretta che colpisce tali prodotti, con aliquote del 4, 5, 10 e 22%. L’intervento del Governo è chiaramente mirato a mitigare gli effetti dell’inflazione che ha raggiunto l’8% su base annua e minaccia di aumentare nei prossimi mesi. Una situazione che non si vedeva da quarant’anni.

Abbattere la tassazione sui beni di prima necessità per sostenere soprattutto le fasce più deboli della popolazione è un’operazione economica che può avere fondamento. Si tratterebbe di una misura transitoria, da attivare in questa fase, e togliere quando, auspicabilmente, l’inflazione scenderà a livelli più accettabili. Ma presenta anche dei rischi, o per meglio dire rischia di vanificare l’impegno finanziario che richiede. È ben noto che le spese per gli alimenti sono in proporzione molto più importanti per chi ha un reddito basso, rispetto a chi non ha problemi a giungere alla fine del mese. Per quanto una persona ricca spenda in cibo, ristoranti e quant’altro, non spenderà mai di più, in proporzione, di quanto spende per la medesima categoria di prodotti un pensionato al minimo. Oltretutto, più il reddito è alto, più si può facilmente ridurre tale spesa, mentre con un reddito-tipo di 500 euro al mese ogni sacrificio nel cibo diventa una privazione.

Alleggerire i beni di prima necessità sembra dunque una politica efficace per sostenere le fasce più deboli e la cifra di 4 miliardi, quanto si sente dire costerebbe tale operazione, potrebbe risultare ben spesa, e giustificata anche dal fatto che l’inflazione gonfia automaticamente altre entrate dello Stato. Ma siamo sicuri che la riduzione delle aliquote Iva che gravano sulla farina, sulla carne o sui pannolini si traduca poi in un equivalente ed effettivo ribasso al bancone o allo scaffale?
L’esperienza della recente riduzione delle accise sulle benzine dovrebbe invitare alla prudenza. Quando il Governo ha ridotto l’accisa sui carburanti, il prezzo alla pompa si è fermato per qualche giorno, per poi ripartire e toccare giorno dopo giorno nuovi record, peraltro in un contesto internazionale del prezzo del greggio che non giustificava tali aumenti. Il problema è che in un mercato segmentato come quello dei beni primari (come la benzina), con una domanda rigida perché si tratta di beni a cui è difficile rinunciare, e oltretutto in una fase di inflazione che corre, i meccanismi di concorrenza e blocco dei prezzi efficaci faticano ad entrare in funzione.

Il panettiere che vende il pane a 4 euro, dopo la cancellazione dell’Iva al 5% sulla farina, esporrà il cartello 3,80 euro? Se lo farà, lo farà per pochi giorni, poi avrà tutti i motivi (aumento costi trasporti, bollette eccetera) per riportare il prezzo a 4 euro). Sarà subito annullato il taglio dell’Iva. E così il pizzaiolo cambierà il menu per pochi centesimi? Il macellaio applicherà la riduzione a tutti i tagli di carne? La riduzione dell’Iva sui beni di prima necessità finirà molto probabilmente per non avvantaggiare il consumatore finale, ma tutta la catena del commercio. Anche tra i commercianti ce ne sono molti in difficoltà, che non riescono o non vogliono mettersi al riparo dall’inflazione, e che stanno pagando caramente l’aumento dei costi per l’energia e per i servizi. Ma se si ritiene di sostenere tale fondamentale parte della vita economica del Paese è meglio farlo direttamente, senza travestire tali aiuti per sostegni alle famiglie e alle classi più povere. Intervenire sui beni di necessità aveva un altro significato negli anni Ottanta, quando la quota del reddito medio degli italiani destinata ai prodotti alimentari era molto più alta, e la struttura commerciale molto diversa. Oggi corre il rischio, paradossalmente, di non generare alcun reale beneficio per le classi più basse, a fronte del suo costo.

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