Se ne parla per strada, sui social, in famiglia. Ci si chiede se ci sarà davvero, questa maledetta guerra in Ucraina. E ognuno dice la sua, s’improvvisa esperto di geopolitica, esibisce informazioni particolari secondo cui le vere ragioni di questo conflitto sarebbero altre, sempre più oscure e segrete.
Ma non appena sarà terminata questa fase di politica estera epidermica da «strapaese», ecco che tornerà l’indifferenza per il mondo, per le forze in campo nel difficile scacchiere geopolitico internazionale.
Perché il nostro è in larga misura un Paese ripiegato su se stesso, culturalmente autarchico, linguisticamente refrattario all’esperanto inglese, profondamente nazionalista nell’immaginario e negli orizzonti. Basta vedere la fiction di maggiore consumo. Mai una volta che una storia sia ambientata fuori dai nostri confini nazionali. E basta vedere gli approfondimenti giornalistici e i talk-show, che quasi mai affrontano le tante questioni aperte nel mondo.
Come fosse, la realtà italiana, indipendente dalle dinamiche internazionali. E come fosse, l’Italia, titolare di una rendita sovranista per il solo fatto di avere una grande storia alle spalle. E invece se di politica estera non ci si occupa, bisogna sapere che essa si occuperà di noi a nostra insaputa.
È come la questione del caro-bollette e dell’inflazione. La gente è giustamente arrabbiata e preoccupata, borbotta, se la prende col Governo, chiede «ristori», pensa che sia una cattiva manovra dello Stato per incassare liquidità.
E invece no. Il caro-bollette è il frutto di numerose concause internazionali – economiche, logistiche, geopolitiche, finanziarie, ecc. E non conoscerle, non saperle, ignorarle così sistematicamente, rende non soltanto il nostro Paese più vulnerabile, ma anche meno consapevole di stare in un meccanismo dove tutti gli ingranaggi sono profondamente interdipendenti e tutti i fattori in campo interconnessi.
Si sente dire spesso, soprattutto dai giornalisti, che «la politica estera non tira». È vero, è un dato di fatto. E tuttavia conviene invertire rapidamente la rotta, perché il mondo cammina in fretta, e se non ci si aggiorna con serietà sulle questioni internazionali si rischia di capire poco finanche di ciò che accade nel nostro Paese. Come nel caso della guerra in Ucraina, di cui si parla solo ed esclusivamente in toni emotivi e allarmati, senza mai addentrarsi nei suoi grovigli politici, ideologici ed economici.
Da questo punto di vista è molto apprezzabile il lavoro che sta facendo Monica Maggioni al Tg1, che ha ridotto al minimo lo spazio dato ai litigi di cortile e spalancato gli orizzonti del principale telegiornale nazionale alle questioni internazionali, addirittura con approfondimenti e reportage.
E allora va bene dire «prima gli italiani», ma sempre tenendo a mente che per fare davvero il bene dell’Italia bisogna stare nel mondo, conquistare posizioni a livello internazionale, essere competitivi e autorevoli, conoscere le strategie delle grandi multinazionali, degli altri Stati e delle Unioni sovrastatali più importanti.
Ma per fare questo bisogna possedere la principale infrastruttura per stare pienamente nel mondo: parlare e leggere l’inglese. Un PNRR davvero efficace – purtroppo il rischio è che questo straordinario piano di ripresa diventi una grande abbuffata truffaldina – avrebbe dovuto aiutare i giovani, i dipendenti pubblici, i professionisti, gli imprenditori e i politici a imparare l’inglese, che è il principale strumento per muoversi consapevolmente nella complessità del mondo. E invece siamo ancora in larga misura un Paese dialettale, campanilista, nazionalista, tutto ripiegato in una narrazione oleografica, strappalacrime e consolatoria.
Prima invertiamo la rotta e meglio è per tutti. Anche per chi pensa e scrive sui giornali, perché se la politica estera continua a non «tirare» il rischio è di esasperare narrazioni ombelicali e piccole e sterili guerriglie da «strapaese», che ci condanano a una crescente irrilevanza.