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L’affetto dei lavoratori, il premio più importante per il militante Di Vittorio

 
Vito Antonio Liuzzi

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Vito Antonio Liuzzi

Giuseppe Di Vittorio

Giuseppe Di Vittorio

Il padre della Cgil nel ricordo della figlia Baldina

Lunedì 31 Ottobre 2022, 13:02

«Non meraviglierà sapere che tutto nella nostra famiglia è stato dominato, condizionato dalla scelta di vita di nostro padre. E quindi anche la nostra vita familiare è stata sempre subordinata alle esigenze della sua battaglia politica». Così Baldina Di Vittorio ricordava in occasione del 30esimo anniversario della morte del padre, scomparso improvvisamente a Lecco dopo una manifestazione della Camera del Lavoro di Lecco, il 3 novembre di 65 anni fa. Il lungo e drammatico travaglio familiare era iniziato la notte tra il 31 ottobre ed il 1° novembre del 1922, quando con suo fratello Vindice, nato dieci giorni prima, e sua madre ancora convalescente, Baldina fu costretta a lasciare precipitosamente la stanza che li ospitava all’interno della Camera del lavoro sindacale di Bari, in piazza San Marco, ed a mettersi in salvo, con l’aiuto delle popolane della città vecchia.
L’ondata di violenza dei fascisti all’indomani dell’incarico a Mussolini si dispiegò a pieno nel capoluogo pugliese con l’assalto e devastazioni anche di abitazioni private degli esponenti socialisti, comunisti, repubblicani, anarchici e dei rappresentanti sindacali. Furono distrutte la Camera sindacale del lavoro (Cgil) in via De Rossi, leghe e cooperative sindacali, la «Società Umanitaria», botteghe artigianali di militanti dei partiti di sinistra. Anche a Cerignola, la famiglia del padre della Cgil fu costretta a nascondersi per sfuggire alla violenza degli uomini di Caradonna che sin dalle elezioni del maggio del 1921 erano stati responsabili di uccisioni di diversi lavoratori, intimidazioni e aggressioni anche a parenti di Di Vittorio.

Il lungo cammino della clandestinità a Roma, Castel Gandolfo, Milano e l’esilio in diverse capitali europee ed infine a Parigi caratterizzò tutta l’infanzia e l’adolescenza di Baldina, del piccolo Vindice e di sua madre Carolina, che morì a Parigi nel 1932. Baldina che aveva imparato diverse lingue, a 17 anni, aiutò il padre nella redazione de La voce degli italiani, il quotidiano degli emigrati italiani a Parigi che dal 1937 al 1939 sostenne una dura battaglia a difesa dei connazionali colpiti da licenziamenti e da una ondata di xenofobi, alimentata dalla estrema destra francese. Il quotidiano diretto da Di Vittorio denunciò con forza la politica razziale e i guerrafondai di fascismo e nazismo, e manifestò il suo dissenso nei confronti del patto russo-tedesco del 1939. Di Vittorio non dimenticò mai la Puglia, la sua città natale con diversi articoli sul quotidiano diffuso in diverse zone della Francia e nei quartieri operai della capitale.

Con l’esplodere del conflitto iniziò per Di Vittorio, Baldina e Vindice un’altra fase tormentata di illegalità e persecuzioni. Nel 1940 non ancora ventenne la primogenita di Di Vittorio fu deportata nel campo di concentramento di Rieucros nei Pirenei assieme a decine di militanti comuniste ed ebree di diversa nazionalità. Il padre fu arrestato dalla Gestapo, deportato in Italia, rinchiuso nel carcere di Lucera e poi inviato nella colonia confinaria di Ventotene, mentre Vindice non ancora ventenne si arruolò nel Maquis, combattendo nel sud ovest per la liberazione della Francia. Vindice nel 1944 fu ferito gravemente in combattimento e per tutta la vita ne subì le conseguenze. «Per nostro padre il ferimento di Vindice fu un colpo quasi insopportabile. Non voleva credere a tanta sfortuna». Vindice considerato un eroe in Francia e nel paese che contribuì a liberare (fu insignito di un alta onorificenza) si laureò brillantemente in chimica all’università di Toulouse ed in Italia a Bologna iniziò una intensa attività scientifica interrotta dall’insorgere di una gravissima malattia, la leucemia.

Nei ricordi di Baldina, emerge con forza l’insieme di una straordinaria realtà familiare cementata dalla presenza del padre della Cgil: «Mi sembra di averlo sempre visto, anche quando ero piccolissima, al tempo stesso come un padre affettuosissimo, come un capo, un trascinatore….non si è mai dato per vinto; anche nelle situazioni più difficili, nei momenti più bui, sapeva trovare ed indicare una soluzione, una via d’uscita. Ha lasciato un segno profondo: non è certo un caso se nel corso di tutta la sua avventura umana e politica egli sia stato sempre circondato dal calore e dall’affetto dei lavoratori: il premio più importante - credo - per un militante».

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