BARLETTA - «È un cerchio che si chiude». È felice e commosso Davide Desario, quando racconta del «meraviglioso rapporto» che suo padre Vincenzo aveva con la sua «amata Barletta».
Davide - romano, classe 1971 ma con sangue barlettano nelle vene, dal 2018 dirige il quotidiano «Leggo» con edizioni a Roma e Milano - con garbo e piacere racconta alla Gazzetta «le emozioni di tutta la mia famiglia e mie per questa meravigliosa giornata».
Roteando il caleidoscopio dei ricordi, aggiunge: «Lì dove tutto cominciò, novanta anni fa a Barletta in via Fraggianni in una delle Sette Strade, si rende onore ad un uomo speciale. Un marito unico, un padre straordinario, un amico leale, un italiano orgoglioso del suo Paese e un barlettano doc. Mio padre ha dedicato tutta la sua vita alla famiglia, e alla Banca d’Italia, mantenendo un profondo legame con la sua città natale. La decisione del Comune di Barletta, forte della richiesta del Rotary Club, ci ha emozionato. E, anche se pensavo fosse impossibile, ci ha reso ancor più fieri di Vincenzo Desario».
«Era un uomo di poche parole - sottolinea Davide -. Faceva parlare i fatti e il suo esempio quotidiano. Onestà cristallina, sacrificio senza scorciatoie e senza paura. Ricordo le sue frasi: “Pensate a lavorare e a stare bene”, “Non guardare gli altri, pensa a lavorare”. Lui è stato così. Da ragazzino si faceva prestare i libri perché in famiglia non avevano i soldi per comprarli. Studiava di notte e per pagarsi l’Università giocava a calcio nelle squadre della provincia. È arrivato ai vertici della Banca d’Italia senza frequentare i licei blasonati delle grandi città, senza fare master in Inghilterra, Francia e Stati Uniti. E senza mai avere una tessera di partito. E non ha mai perso di vista il Paese reale. Un suo ex collega mi raccontò che ogni volta che si prendevano macro decisioni, lui pretendeva sempre che si valutassero le conseguenze per l’uomo della strada. Perché da lì veniva e sapeva quanto fosse duro vivere, anzi sopravvivere».
Capitolo «affetto Barletta». «Papà era barlettano. E lo rivendicava con orgoglio sempre e in ogni luogo, fosse al “G7” di Washington o in spiaggia ad Ostia, tra le cime delle Dolomiti o alle riunioni del Fondo monetario internazionale. Era italiano, meridionale, barlettano. A casa, a Roma, nel salone, tra i divani, ci sono tutti i libri di Barletta. In corridoio vecchie litografie della città. Sulla libreria ancora volumi sulla Puglia e su Barletta e nella nostra ex stanza il poster in bianco e nero di Pietro Mennea con il suo autografo. E soprattutto, vicino allo stereo, c’è una strepitosa collezione di Lp di musica popolare pugliese, tra cui troneggiano i dischi di Gino Pastore».
Un filo nostalgia: «Quante volte si sedeva sulla poltrona e ascoltava quei dischi e fischiettava... “Barlett c si bell quenn chiove, a cammne cu cors a sar e nov” (“Barletta come sei bella quando piove, passeggiando sul corso la sera alle nove). E poi quelle telefonate con i suoi amici, quando improvvisamente sfoderava un dialetto strettissimo e parlava di pesce fresco, percoche, capitone e cartellate. Gli piaceva tantissimo il vino rosato Five Roses, lo comprava a Barletta per portarlo a Roma».
Poi, visualizzando i luoghi durante le passeggiate a Barletta, prosegue: «Tanti. Innanzitutto il bar Mazzocca, i suoi amici Franco e Vito, l’avvocato Vito Francavilla e Michele Tupputi. Poi Eraclio. Fin da piccolo mi ci faceva entrare dentro e salire su. Altra tappa un negozio di dischi sul corso, dove andava a cercare dischi e musicassetta di canzoni barlettane. Li comprava tutti, credo una volta anche Leone Di Lernia versione discomix». Ma non solo: «Mi portava da piccolo a piazza Roma, dove si riunivano i braccianti e si parlava di frutti di mare crudi. Io prima della pastina in brodo sono stato svezzato con i “sardollini” ovvero il novellame. Una volta allo stadio mi comprò un cuscino pieghevole bianco e rosso: l’ho conservato per anni portandomelo dietro anche allo stadio Olimpico di Roma».
E poi: «Quando venivo a Barletta amavo due cose. Quella più divertente era giocare nel giardino di via Meucci, dove abitavano i miei nonni materni e i miei tre cugini Anita, Fabio e Giuliana con la loro comitiva di amici. Passavamo interi pomeriggi tra biciclette, altalene e partite di pallone. Ricordo le sorelle Storelli, Titti Zotti, Gianpaolo e poi Piero Pistillo. Dopo oltre 40 anni con alcuni sono ancora in contatto sui social. La seconda cosa, invece, era la più eccitante: la mattina della vigilia di Natale c’era una riunione di super amici nel magazzino del bar Mazzocca. C’erano gli amici veri che si facevano gli auguri. Mi sentivo grande. Osservavo. Ascoltavo e intanto Franco Mazzocca mi riempiva le tasche di torroni, cioccolatini e mostaccioli. Indigestione assicurata ogni anno. Il mio terrore erano i fratelli Corvasce. Due amici di papà molto alti e robusti. Quando li incontravamo sul corso era sempre lo stesso calvario: salutavano papà che mi teneva per mano, poi mi davano un ceffone a mano aperta che secondo loro era affettuoso e infine afferrandomi la guancia, tra pollice e indice, mi sollevavano quasi da terra urlando “u Figghie d’ Cenzin” (il figlio di Cenzino). Un altro aneddoto risale alle ultime feste di Natale. Ero con un amico a pranzo in un ristorante a via della Scrofa a Roma, avevamo un tavolo alle spalle alquanto rumoroso. Mi giro infastidito. Erano tre uomini. Quando sentii l’accento, sorrisi e chiesi, se fossero pugliesi. Risposero in coro: “Pugliesi di Barletta”. Erano tre compagni di università che hanno la consuetudine di ritrovarsi ogni anno in una città italiana per farsi gli auguri. Insomma, finimmo con l’unire i tavoli e con lo scoprire di avere amicizie in comune, tra una risata e uno scherzo. E dopo qualche settimana, uno di loro, Mimmo Arbues, mi ha spedito una scatola di cartellate. Questa è Barletta».