«L’imprudenza non ha colore, l’incoscienza ha tutti i colori dell’arcobaleno». Così Massimo Galli, direttore della clinica di Malattie Infettive dell'ospedale Sacco di Milano e gran tifoso dell’Inter, ha commento le scene viste in piazza Duomo, dove - senza varchi di accesso, né controlli - si è permesso a umori, sudori e odori di 30mila persone di mescolarsi nella festa per il diciannovesimo scudetto della squadra. Con il rischio serio di dar vita a quella che tra un paio di settimane potrebbe essere la quarta ondata di Covid-19 in Italia.
Ha già un nome il virus mutato: è la variante nerazzurra che ringrazia l’idiozia diffusa e il menefreghismo istituzionale. A essere onesti, l’orgia calcistica milanese non è stata l’unica. Un po’ perché i tifosi interisti sono ovunque nello Stivale, un po’ perché, calcio a parte, di caos il 2 maggio ne era pieno il Paese (esempio il lungomare di Bari).
Ma Milano è Milano e sotto la Madonnina il coronavirus ha già colpito duro. La Lombardia è dopo Whuan la prima regione al mondo ad aver fatto i conti con il mostro che sta attanagliando la nostra libertà, quella che gli ha pagato il tributo di vittime più alto. Si poteva, a ragionarci poco poco, fare attenzione, prevenire, perfino tentare di «organizzare» un assembramento ampiamente annunciato.
Qualcuno ha paragonato la folla davanti al Duomo a quella del Gange, una festa sacra da cui ha preso forma la tragedia che sta colpendo l’India e non solo. Oltretutto sarebbe bastato ricordare quanto accaduto in piazza San Carlo a Torino nel 2017, per evitare.
E invece no. Ci si lecca le ferite gettandola in caciara. Il governatore Fontana (Lega), «guardando» al sindaco Sala (Pd): «Era prevedibile». Il sindaco Sala, in silenzio per ore, rilanciando le parole del prefetto Saccone: «Chiudere la piazza era peggio». I cittadini accusando: «Incompetenza ingiustificabile». La Confcommercio rilanciando: «I locali non possono aprire e in piazza arrivano in 30mila così?».
«La gioia si può comprendere – ragiona Locatelli del Cts – ma deve prevalere il senso di responsabilità e i 121mila morti devono averci insegnato qualcosa». Evidentemente non hanno insegnato nulla. Quanto al senso di responsabilità degli italiani, almeno in questo momento, meglio un velo pietoso.
Tutto ciò nonostante l’attuale situazione della pandemia per niente sotto controllo. Uscendo una volta per tutte dall’equivoco che nel nome del calcio tutto è permesso. Non più almeno. Non più le scene viste a Napoli per la morte di Maradona, o il raduno romanista davanti a Trigoria. Non in una nazione con la sanità al collasso e intere categorie di lavoratori alla fame.
Il tifo per definizione non è il luogo della razionalità: passione a senso unico, spesso sconsiderata. In tempi normali sarebbe comprensibile e persino lecito, come tutti gli amori, irrazionali ma gioia pura. Purché sia una follia sana. Invece di responsabile tra quelle 30mila persone in piazza Duomo, e tra tutte quelle che hanno approfittato della «domenica estiva», non c’è più nulla.