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La riflessione
Sergio Lorusso
27 Gennaio 2021
Non è la prima volta che la questione giustizia genera una crisi di governo. Si tratta, del resto, di un tema tradizionalmente divisivo. Questa volta il dissidio – al di là delle ragioni strumentali e contingenti che pure hanno spesso un’importanza decisiva – è di carattere generale, investe l’intera politica del governo in materia di cui si sarebbe dovuto discutere in Parlamento con la Relazione annuale del guardasigilli, anche se concerne in particolare le risposte offerte all’annosa – e quasi irrisolvibile – questione della durata (poco) ragionevole dei processi penali.
Sembra che le lancette dell’orologio politico siano andate indietro di un anno. La soluzione offerta da Alfonso Bonafede – e dalla sua parte politica – ruota attorno all’istituto della prescrizione, la cui portata è stata ridimensionata già lo scorso anno sovvertendo le vie praticate dal ministro Orlando nel 2017. Con un Pd, va sottolineato, pronto a barattare le opzioni fatte proprie alle ‘epoca dal “suo” Guardasigilli. Ma, si sa, la politica non è certo il regno della coerenza. Anche quando sono in gioco valori essenziali. Italia viva, invece, è fortemente contraria, così come l’intera opposizione. E poi, una riforma “epocale” del processo penale, come quella enfaticamente annunziata dal Guardasigilli, che però sembra consistere in una serie di norme frammentarie e disorganiche, affastellate in un disegno di legge del quale sfugge il senso complessivo.
Ad avviso dei pentastellati è sospendendo il corso della prescrizione dopo una pronuncia di merito - favorevole o sfavorevole che sia all’imputato – che si accelererebbero i tempi processuali, dissuadendo gli imputati da impugnazioni pretestuose. Non è così.
Intanto perché gran parte dei ritardi nello svolgimento del processo si accumulano nella fase delle indagini preliminari. La percentuale di processi che si prescrive in appello è minimale. Poi perché la soluzione adottata presenta possibili profili di illegittimità costituzionale. A tentare di correggere il tiro è intervenuto il cd. “lodo Conte bis”, ora confluito nel disegno di legge Bonafede, che distingue tra assolti e condannati in primo grado aggravando però il prevedibile contrasto con l’art. 27 comma 2 della Carta fondamentale (che impedisce discriminazioni prima della condanna definitiva) e introducendo un meccanismo farraginoso che rischia di complicare il tutto. Ma, indubbiamente, è in linea con quell’approccio pentastellato che suol dirsi “giustizialista” e che costituisce la cifra dei grillini.
Il modello Bonafede cerca di intervenire anche sui riti differenziati, il cui scopo è quello di anticipare l’esito del processo, ma si tratta di micro-interventi non si sa quanto efficaci. E che, soprattutto, dimenticano come una delle cause – forse la causa principale – del loro insuccesso stia in un limite ordinamentale che caratterizza il nostro processo rispetto a quelli di common law: l’obbligatorietà dell’azione penale. Quest’ultima, difatti, conferisce spazi ridotti alle parti per pervenire a una risoluzione consensuale del processo (si pensi che negli Stati Uniti si può patteggiare non soltanto la pena ma anche l’imputazione).
La prescrizione è un istituto di civiltà giuridica, che risponde all’incapacità dello Stato di chiudere il processo in tempi appropriati e, dunque, ragionevoli. Non è un escamotage per eludere il processo.
La questione della durata non ragionevole dei processi è assai complessa e non si può risolvere tagliando la prescrizione. In tal modo, viceversa, si genera la possibilità di processi infiniti, di cui sarebbero vittima gli imputati – con tutto quello che ne consegue in termini di danno all’immagine, all’attività lavorativa e alla vita di relazione – ma anche le persone offese, in attesa di un riconoscimento rapido delle loro istanze. Al pari dell’opinione pubblica (la giustizia, non si dimentichi, «è amministrata in nome del popolo»: art. 101 comma 1 Cost.), tenuto conto che non è la stessa cosa assistere alla rapida definizione di una vicenda processuale piuttosto che alla sua conclusione quando, magari, è caduta nell’oblio. La soluzione Bonafede, insomma, ha più il sapore di una sanzione anticipata (e profondamente ingiusta, nel caso in cui la vicenda processuale si concluda con l’assoluzione) che colpisce l’imputato a prescindere dal suo eventuale ostruzionismo. In linea con quell’atteggiamento colpevolista che ispira l’azione politica dei Cinquestelle
E allora? La giustizia in paradiso?
Macché. Ad essere ottimisti continua il suo purgatorio, con la speranza di non scivolare più giù. E in attesa che le sue sorti si sleghino da quelle di crisi di governo e battaglie parlamentari possiamo solo affermare che il paradiso della giustizia, ancora una volta, può attendere. Né peraltro la giustizia può essere edificata da costruttori e volenterosi. Che dire?
Non un grande spettacolo per uno Stato liberale e democratico.
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