L'editoriale

Quei giochi pericolosi sull’altare dell’Europa

Giuseppe De Tomaso

L'Italia rischia il classico colpo di scena, ossia l’apertura di una crisi di governo a pandemia ancora in corso e con il pericolo di una terza ondata virale in agguato dopo le Feste

Di solito tutte le emergenze (naturali, sanitarie, militari, economiche) si trasformano in polizze assicurative per i governi in carica. Non soltanto in Italia. Stavolta, invece, a Roma, rischia di verificarsi il classico colpo di scena, ossia l’apertura di una crisi di governo a pandemia ancora in corso e con il pericolo di una terza ondata virale in agguato dopo le Feste. Presumiamo che, in zona Cesarini, la maggioranza di governo troverà i numeri per salvarsi, non foss’altro perché, in caso di flop nella votazione parlamentare di domani sugli aiuti europei, sarebbe assai complicato schivare lo spauracchio delle elezioni anticipate.

Il presidente della Repubblica lo ha lasciato intendere in mille modi: se si apre la crisi, si riapriranno le urne. Altre soluzioni non sono in elenco o in calendario. Ma tornare in cabina elettorale equivale a comunicare alla maggior parte di senatori e deputati la lettera di sfratto definitivo da Palazzo Madama e Montecitorio, dal momento che scatterebbero i bruschi tagli della rappresentanza ratificati dal referendum del settembre scorso.

Se poi ai tagli di Casta si aggiungono i fisiologici avvicendamenti tra veterani e matricole in lista, non è necessario consultare un astrologo per prevedere un turn over di proporzioni bibliche nei due edifici della legislazione italica.

Ecco perché azzardiamo la previsione che, sia pure al novantesimo minuto, il presidente Giuseppe Conte supererà il test in Aula. Nessun parlamentare in bilico, e sono tantissimi, accetterebbe mai a cuor leggero di voltare le spalle al governo, sottoscrivendo ipso facto la propria eutanasia politica. La salvaguardia del proprio particulare va ritenuta una motivazione assai più plausibile e convincente dello stesso timore per le reazioni europee di fronte a una crisi di governo scoppiata sui soldi per uscire dalla crisi economico-sanitaria.

Eppure, malgrado tutto, malgrado la fondatezza dell’argomento «tengo famiglia», da qualche settimana lo scenario politico appare più cupo di un cielo stracarico di nuvoloni.
Ufficialmente si litiga sull’Europa e sul Mes (Meccanismo europeo di stabilità). Il che è pure vero, perché la maggioranza giallorossa non è riuscita ancora a trovare la quadra tra l’anima riformistica (filo-europea) e l’anima populistica (anti-europea). Ma non sbaglia chi indica nella faccenda delle nomine la vera patata bollente che può fare saltare il banco.

L’esperienza della Prima, della Seconda e della Terza Repubblica dimostra una cosa: ci si può azzuffare sui massimi sistemi e sulle politiche economiche, ma alla fine uno straccio di compromesso si trova.

Ma se si rompe sulle nomine, cioè sui nomi di governo e sottogoverno, nessuna ricomposizione è possibile, e i miracoli diventano più rari degli abbracci tra positivi da Coronavirus. Infatti. La temperatura politica è salita alle stelle, nelle ultime settimane, in seguito ai primi boatos sui candidati (soprattutto top manager) alle varie cabine di regìa (su Recovery Fund in primis) che l’esecutivo intenderebbe attivare per ideare/realizzare gli interventi di contrasto ai disastri economici provocati dal morbo asiatico. Traduzione: è in ballo la spartizione di una montagna di risorse. Il che ha comportato, come contraccolpo, l’intensificazione del pressing per cambiare la squadra di governo (leggasi rimpasto). E quando si comincia a discutere di rimpasto la terra sotto i piedi si fa più scivolosa di una pista innevata. Perché anche il rimpasto rischia di tramutarsi in una bomba ad orologeria. All’inizio i beneficiari folleggiano a champagne con più gioia di una festa di laurea, ma i trombati, i retrocessi e gli esclusi mugugnano terribili propositi di rivalsa: coltello tra i denti e appuntamento alla prima occasione propizia per azzannare mortalmente la preda governativa. Del resto, gli incarichi, come insegnava il mitico Re Sole, sono materia esplosiva, spesso controproducente: il premiato presto assume le sembianze dell’ingrato («sindrome rancorosa del beneficato), gli aspiranti delusi evolvono sùbito in nemici irriducibili.

Ma c’è un elemento che, in un Paese normale, meriterebbe di diritto il primo posto nella classifica delle priorità e delle preoccupazioni generali: la credibilità internazionale. Il balletto sul Mes, e anche sul Recovery, di sicuro non giova all’affidabilità del Belpaese in Europa. Idem la sottovalutazione del Fattore Debito. Idem la stessa ambiguità delle singole forze politiche sull’intera politica monetaria dell’Unione. Se poi a questi limiti aggiungiamo la disinvoltura con la quale si affronta, in Italia, l’eventualità di una crisi di governo durante la pandemia, il cerchio si chiude. E in maniera poco gloriosa per il prestigio del Belpaese nel mondo. Non vorremmo che di questo passo ad auspicare l’Italexit dall’Europa non fosse più il fronte sovranista tricolore ostile alla moneta comune, ma quei partner dell’Unione esasperati dalle tradizionali bizze e dai proverbiali ritardi, giochini e giochetti di quelli che stanno a Roma.

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