Nell’animo di molti cittadini due antagonisti sono in lotta: la paura del futuro e la fiducia nelle istituzioni democratiche. L’incremento, alcuni esperti dicono esponenziale, dei contagi e purtroppo delle persone che muoiono a causa del Sars-Covid-19, e le stesse prescrizioni restrittive del governo nel tentativo di controllare la pandemia, hanno prodotto, lo ha detto il presidente del Consiglio, Conte, «stanchezza, ansia, rabbia, frustrazione e sofferenza».
Questo stato emotivo di insicurezza e di reazione è il peggiore per la salute della stessa democrazia.
Chi ha fiducia nello stato democratico, da parte sua, è convinto che in un ordinamento liberale e democratico il governo è sempre della legge, e non dei politici al momento eletti, o peggio della massa che si riunisce per far valere la sua voce. L’esito di questo antagonismo non è scontato, soprattutto quando il nemico che lo provoca è un nemico invisibile e dimostra una carica distruttiva della carne e dello stesso spirito che ci anima nel nostro agire.
Democrazia e sanità pubblica sono strettamente intrecciate. Quando la salute dei cittadini viene minata da un’epidemia o dalle malattie che le autorità non sanno affrontare crescono le probabilità che violenza e demagogia possano emergere e insidiare le libere istituzioni. Durante le epidemie dei secoli passati, soprattutto di peste come quella del 1630 a Milano, Firenze e altre città anche europee, le drammatiche microstorie locali, hanno sempre determinato accelerazioni con un profilo istituzionale. Uomini nuovi, oppure persone già con incarichi pubblici, venivano investiti da funzioni non previste nei decenni di normale potere. L’economista Carlo M. Cipolla ha scritto diversi libri su questo tema.
Partiamo dai dati di oggi perché sono i dati che rappresentano le microstorie che diventano grande storia. E i dati sono in primo luogo numeri. Tamponi, 174mila; nuovi casi di contagio 21.994; persone morte, purtroppo 221, nuovo record drammatico dopo le cifre segni di speranza tra luglio e agosto, da tre a cinque decessi al giorno. Un mese fa, il 26 settembre scorso, si contavano 17 persone morte con 1869 casi di contagio.
Ieri è stata una giornata durissima per medici, infermieri e personale degli ospedali a cominciare dall’emergenza e dalla forte pressione sui pronto soccorso e sulle terapie intensive. Fatti questi che smentiscono quanti, anche tra gli esperti, nei giorni scorsi hanno continuato a dire <la situazione è sotto controllo>. E’ vero, siamo molto lontani dalle cifre del 27 marzo scorso, la giornata più nera dall’inizio del censimento della pandemia, quando in 24 ore morirono 919 persone e i camion militari arrivarono nei cimiteri di Bergamo per caricare e trasportare le bare con i corpi da cremare. Ma in una democrazia di valori, attenta alla dignità di ogni individuo, il numero dei morti non è il termometro della salute pubblica, anche un morto in più è un peso nella coscienza di chi crede nella democrazia. Invece, in una parte non trascurabile della popolazione sembra al lavoro un demone, considerare i morti da Covid-19 un tributo tutto sommato scontato in una logica malsana di selezione generazionale.
Eppure una tregua il virus l’aveva offerta, proprio a partire dal calo della curva dei decessi fino a tutto settembre. Potevamo organizzarci meglio e tutti insieme fare della sanità pubblica e della sorveglianza su distanziamento e attenzione ai contagi una leva di miglioramento della stessa costituzione democratica a difesa della salute dei cittadini, di tutti i cittadini. Una relazione del 25 maggio 2020 del Gruppo di lavoro bioetico sul Covid aveva fatto il punto sulla risposta dell’Italia alla pandemia (a quella data con 35mila morti) e aveva individuato, per chi voleva e doveva intendere anche per la loro responsabilità istituzionale, i punti di debolezza, a cominciare proprio dalla vigilanza sui casi di contagio e sui tracciamenti dei rapporti tra individui infetti e altre persone, familiari e non.
<Le attività di sorveglianza fungono da sistema di allarme rapido, consentono di documentare l’impatto di un intervento e di monitorare lo stato epidemiologico della patologia, supportare le politiche e le strategie di sanità pubbliche>. Il Gruppo continua poi con le tre fase dio un programma auspicato e mai attuato, compito questo che spetta senz’altro alle regioni e alla loro organizzazione sanitaria, per Asl e distretti, ma anche allo stato nel suo ruolo di impulso e valutazione. Invece, nella nostra invincibile retorica (<siamo più bravi dei francesi e degli inglesi>) abbiamo pensato a tutt’altro, non siamo partiti dalle disfunzioni da correggere, alle lacune da colmare e alla precarietà dell’organizzazione da arricchire con nuove e mirate professionalità. Il riferimento è alla necessità di dotarsi di <data scientist> (<scienziati dei dati>), cioè di oneste professionalità che sanno raccogliere, leggere, interpretare e trarre conclusioni operative dai dati. No, il governo ha rinviato tutto alla prossima riforma annunciata con il sogno dei soldi del Mes.
Ecco, i soldi a volte rappresentano veramente il demonio. La grande tentazione degli attuali governanti, non solo a livello centrale, è di saldare e di rispondere, con l’assistenzialismo distributivo, ai malcontenti, alle proteste e ai mancati redditi. Soldi sui conti corrente, promettono a Roma, nella speranza di calmare gli animi. Ma la salute dell’animo cresce con l’autostima di un lavoro ben fatto e con una risposta calibrata, efficiente e disciplinata alla sfida pandemica. Invece, stiamo rischiando una deriva terribile: spendere indebitandosi sempre più, rovinando il nostro presente e scaricando sui nostri figli e nipoti i conti in rosso da pagare.