Al Catechismo m’insegnarono, con insistente e affettuosa petulanza, i Dieci Comandamenti. E pretesero che li imparassimo a memoria. Con la mite solennità parrocchiale, ammiccando alle immagini sulla parete, le pie donne che impartivano minima moralia cattoliche, apostoliche, romane ci facevano capire l’intransigenza della legislazione divina sulle questioni etiche e sociali che a questa dovevano conformarsi.
La prosa era esigua e perentoria, ma convincente, con la gestualità oratoria delle pinzochere (bizzoche nella nostra parlata) che indicava la minuscola iconostasi incorniciata da un nebuloso alone di umidità della parete: qui figurava, a scortare il Crocifisso, insieme a dipinti agiografici comprendenti i santi evangelisti, la Vergine nella variante dolcissima della patrona di Bitonto.
Tutti arruolati dalla fotografia del Papa che campeggiava per sostenere il compito didattico di quelle maestre: convincere la minima turba di scolaretti a mandare a mente salmodiando il decalogo. Allora il Papa era Pio XII.
Mi è venuta in mente la minima memoria fanciullesca, leggendo della dichiarazione del Pontefice oggi regnante, in ordine alle unioni civili delle persone omosessuali. «Le quali hanno il diritto a una famiglia. Nessuno dovrebbe essere estromesso o reso infelice per questo». Mi sto applicando per capire se siano vive le contraddizioni che molti cercano ostinatamente di trovare nelle affermazioni di papa Francesco. Certo, ne è passato di tempo da quelle lezioncine pomeridiane di catechesi concisa di ingiunzioni perentorie.
A parte l’indiscutibile premessa e principio iniziale di autoaffermazione, «Io sono il Signore Dio tuo. Non avrai altro Dio al di fuori di me», incentivo di timore reverenziale, quasi tutto il resto è una sequela sacrosanta di proibizioni. Se ne attenne prima Israele e, poi, il buon Cristiano che vi si dovrebbe attenere senza «se» e senza «ma». Ai bambini d’un tempo, le tavole ricevute da Mosè incutevano, con le austere ammonizioni, anche il terrore di pene immancabili in caso di infrazioni: prima tra queste, la blanda e terrena corvée della Confessione. I Comandamenti, espressione, di una teodicea tratta dal Vecchio Testamento di cui ci sfuggiva il senso profondo, pur nella semplificazione della catechesi cattolica, erano tutti molto chiari a eccezione di uno.
Finché si imponeva di «Non nominare il nome di Dio invano» o di «Onorare il padre e la madre» non potevamo che concordare e ratificare affettuosamente, lo stesso per quel «Ricordati di santificare le feste» graditissimo agli scavezzacolli che eravamo. E chi poteva dissentire dal «Non rubare», «Non uccidere» o «Non dire falsa testimonianza». Quelle azioni ci facevano orrore ed erano già comprese nel minimo canone etico di adolescenti innocenti, parvuli come ci piaceva crederci, in corsa verso il Maestro che nelle figurine del parroco ci accoglieva a braccia aperte.
Quanto a desiderare la roba d’altri, poteva anche accadere, ma amichevolmente, e la vertenza si esauriva nel condividere la gioia di un giocattolo. Le cose si complicavano con quel «Non desiderare la donna d’altri».
Privi, come eravamo, di mogli, fidanzate o concubine, la proibizione ci lasciava indifferenti: preferimmo rimandare il corruccio ad età più consone a certi pruriginosi verbi ottativi. Il vero problema si apriva tutte le volte che dovevamo impegnarci a «Non fornicare». Cosa diavolo voleva dire? (Qui il diavolo c’entrava proprio). Pudicizia magistrale, ritrosie di discepoli e vaghezza pretesca producevano perifrasi protocollari e generiche. Ai più piccoli doveva bastare: non dovevano fornicare e basta, anche se non sapevano cosa fosse. Ai più grandicelli che cominciavano a poter capire cosa perdessero rispettando il Comandamento, veniva profferita qualche vaga ingiunzione a dormire con le mani sulle coperte, a non toccarsi ficcando le dita nel buco della tasca dei calzoni, a far pipì rapidamente e senza inutili perlustrazioni idrauliche e, alle bambine, a non rispettare l’igiene troppo accuratamente e con troppa insistenza.
Fornicare. Chi non ha pensato che c’entrassero le formiche, le innocenti formiche? Consultando i testi si apprende che, nell’antico, l’articolo sesto del piccolo codice tassativo recitava «Non commettere adulterio». Fu cambiato. E, visto che il legislatore è molto altolocato, convenne accettare la soluzione indicata che è maturata nel corso dei millenni per conciliare gli adattamenti progressivi delle società e della comunità dei cristiani e che annovera vari e molto fantasiosi modi per peccare.
Più tardi, qualche estensore furbo, ma sempre bacchettone, coniò quel
«Non commettere atti impuri» che tentò di alimentare la sessuofobia degli anni della nostra adolescenza. Chi scrive, ma, ne sono certo, anche molti tra chi legge, quando capì le parole, non smise di disubbidire a quel Comandamento e ancora non smette. Grazie a Dio. Ma, a pensarci, noi non c'entriamo e non c'entrammo, non troppo almeno, con il fornicare. Diamo una sbirciatina al Vocabolario, libro più laico, giovane ed esplicito del manuale di Catechismo.
Era una pratica sessuale particolare, quella spiegata dall'etimologia e dispensata dalle prostitute romane al riparo nei «fornici» del Colosseo, come vuole la storia papalina. Le sventurate avevano solo l’obbligo di impedire la vista dei curiosi con una tenda gialla. Il giallo divenne, così raccontano, il colore distintivo della corporazione e il fornice, l’innocente parola architettonica, offrì il destro semantico per il termine che indica le prestazioni erotiche a pagamento. Architettura, edilizia, urbanistica e luoghi pubblici furono, dunque, connessi, loro malgrado, a quel laido peccato.
E l’amore omosessuale? La legge mosaica lo condannava. Si può essere felici o soffrire anche in questa condizione. Come tutti gli uomini e le donne.
Perché «Cristo - dice il teologo Nicola Bux - è morto per tutti, ha steso le sue braccia sulla croce ed ha versato il sangue per ogni uomo, nessuno escluso». Mi permetto sommessamente di interpretare: di ogni creatura umana. Lo dicevamo anche nel catechismo.