L'editoriale

Impedire alla pandemia di «confinare» la scuola

Giuseppe De Tomaso

La didattica a distanza non è una benedizione, contribuisce ad allungare il distacco tra docenti e discenti. L’insegnamento non si esaurisce mai in fredde lezioni, bensì nel ontatto diretto tra chi sta in cattedra e chi sta tra i banchi

Non è necessario impegnarsi più di tanto per prendere atto che l’Italia è sempre di più un Paese sottosopra. È sufficiente osservare l’atteggiamento generale nei confronti dell’infrastruttura più importante che ci sia: la scuola. Ci mancava il Covid per cercare di assestarle il colpo di grazia. Non appena, a settembre, è iniziato il secondo tempo del Coronavirus, è ricominciato il pressing per la didattica a distanza, come se solo le aule fossero focolai di infezioni mentre i restanti concentrati umani fossero tutti siti immuni, sanificati dal Signore. Per fortuna, la ministra dell’istruzione, Lucia Azzolina, si è battuta con forza e successo contro i nostalgici delle tele-lezioni, altrimenti la desertificazione scolastica avrebbe fatto (diciamo) ulteriori passi avanti.

Eppure basterebbe ascoltare l’opinione di presidi, insegnanti e genitori (quelli responsabili): la didattica a distanza non è una benedizione, contribuisce ad allungare il distacco tra docenti e discenti per la semplice ragione che l’insegnamento non si esaurisce mai in fredde lezioni, bensì nel più fecondo contatto diretto tra chi sta in cattedra e chi sta tra i banchi.

La fisicità del luogo, il confronto corale in aula tra la classe e i docenti, valgono molto di più dei compiti assegnati a casa o dei testi da studiare per gli esami. Il ruolo dell’insegnante in presenza, non ex remoto, è decisivo, fondamentale. Non a caso, spesso si sceglie come materia di studio finalizzata alla professione quella resa più interessante dal professore più bravo. Tendenza che svanirebbe sùbito in caso di istituzionalizzazione della cosiddetta dad (didattica a distanza).

La questione viene da lontano. Purtroppo è da più di mezzo secolo che la scuola viene trattata (solo) come Cenerentola clientelare da uno Stato poco degno di questo nome. Tanto che oggi - è opportuno consultare i numeri di paragone - la Francia investe nell’università l’1,21% del Pil; la Germania l’1,16%; la Gran Bretagna l’1,02%; la Spagna lo 0,97%; e l’Italia lo 0,78%. Sono cifre che spiegano meglio di mille volumi di economia e politica la causa del declino complessivo del Belpaese e anche la palese modestia culturale di governanti, legislatori e amministratori vari.

Ovviamente, la responsabilità dello scadimento dell’offerta scolastica non va attribuita solo al ceto politico indifferente alla qualità degli studi o ai sindacati contrari a criteri di selezione meritocratica di docenti e allievi: buona parte di responsabilità va assegnata alle famiglie (non tutte, si capisce), a quelle che concepiscono la scuola come un parcheggio o, peggio, come un passatempo in grado di sostituire la tv, lo smatphone e la playstation. Con questi retropensieri parentali, l’apprendimento finisce per essere ritenuto un fastidio, e il dovere di studiare finisce per essere bollato alla stregua di una provocazione reazionaria da respingere con indignazione. Non ci sono mai doveri da rispettare, ma solo diritti da rivendicare ed esigenze da sbandierare. E poi, con il ritornello che non bisogna lasciare indietro nessuno, addio bocciature per i somari, addio serietà nei giudizi. Todos caballeros!

Il che, ossia la trasformazione del diritto allo studio in diritto al diploma, ha bloccato irreparabilmente da tempo l’ascensore sociale, contribuendo ad allargare il fossato tra ricchi e poveri. Altro che lotta alle disuguaglienze.

Ci congediamo con un brano di una decina di anni addietro, il cui autore è il romanziere-saggista peruviano Mario Vargas Losa, premio Nobel (2010) per la letteratura. MVL si riferiva alla Francia, ma le sue riflessioni sembrano cucite, tuttora, come un abito sartoriale sull’organismo italiano.
Così scriveva il celebre intellettuale sudamericano: «Una delle conseguenze perverse del trionfo delle idee del Maggio ‘68 è stata la brutale accentuazione della divisione tra classi sociali a partire proprio dalle aule di scuola. L’insegnamento pubblico è stato una delle grandi conquiste della Francia democratica, repubblicana e laica. Gli studenti godevano d’una uguaglianza di opportunità che correggeva, in ogni nuova generazione, le asimmetrie e i privilegi legati alla famiglia d’origine o alla classe sociale d’appartenenza, aprendo ai bambini e ai giovani dei settori meno fortunati la strada del progresso, del successo professionale e del potere politico.

L’impoverimento e il disordine sofferti dall’insegnamento pubblico, sia in Francia sia nel resto del mondo, hanno attribuito all’insegnamento privato - al quale ha accesso il ceto ad alto reddito - un ruolo preponderante nella formazione dei dirigenti di oggi e di domani. Non è mai stato così vero il detto: “Nessuno sa per chi lavora”. Credendo di lavorare alla costruzione di un mondo davvero libero, senza repressioni, mancanza di diritti e autoritarismo, i filosofi libertari come Michel Foucault e i suoi discepoli hanno, in realtà, lavorato molto alacremente perché, grazie alla grande rivoluzione da loro propiziata nel campo dell’istruzione, i poveri continuassero ad essere poveri, i ricchi ricchi, e gli atavici detentori del potere seguitassero a conservare la frusta nelle loro mani».

Morale. A scuola l’impegno contro le disuguaglianze ha già accresciuto, negli ultimi lustri, le disuguaglianze sociali. Servirebbe più rigore, a beneficio dei meritevoli, spesso di famiglie più deboli. Ma se il Covid fosse l’occasione per banalizzare, scaricare di significato e prestigio, l’istruzione attraverso la didattica a distanza o altre soluzioni equipollenti, buona notte!

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