L'editoriale

La Lega del rumore e la Lega del silenzio

Giuseppe De Tomaso

L’ipotesi di una spaccatura della dirigenza e dell’elettorato leghista sul caso Europa potrebbe rivelarsi meno immaginaria di quanto si pensi

Se ci trovassimo nei panni del leader leghista Matteo Salvini eviteremmo di tuonare contro l’accordo europeo che ha dato il via libera a 209 miliardi di euro, tra prestiti e sussidi, a beneficio dell’Italia, anche a costo di deludere i sovranisti più accesi. Eviteremmo di alzare le barricate sia perché, obiettivamente, il presidente Conte non poteva ottenere di più, sia perché nell’intesa tra i capi di governo europei si sono creati i presupposti per il debito comune, il che rappresenta, in prospettiva, il successo più succoso della maratona negoziale terminata pochi giorni fa.

Ma c’è un’altra ragione per cui, sempre nei panni di Salvini, rinunceremmo alla battaglia contro il Recovery Fund (e il Mes, neccanismo europeo di stabilità).

L’ex ministro dell’Interno si è presentato, nella conferenza stampa per commentare l’esito della riunione di Bruxelles, insieme con il responsabile economico della Lega, Alberto Bagnai. Bagnai non è un dirigente qualsiasi. Bagnai è il teorico della fuoriuscita dell’Italia dall’euro, è - insieme con il collega Claudio Borghi - il leghista più irriducibile contro l’Unione Europea, accusata da entrambi di remare da sempre contro il Belpaese.

Ma la politica non è solo una macedonia di parole, di intepretazioni, di polemiche e, a volte, pure di fatti.
La politica è anche o soprattutto un concentrato di simboli. Di conseguenza, contestare l’esito del negoziato sugli euroaiuti esibendo al proprio fianco il simbolo dell’anti-europeismo, equivale a dire che la linea ufficiale del Carroccio è ostile all’Unione Europea, all’euro e all’europeismo.

Ma, ci sembra di capire, non tutta la Lega è collocata su posizioni anti-euro, né tutti i dirigenti del partito somigliano agli ultrà dell’anti-europeismo come Bagnai-Borghi. Maggiorenti del calibro di Giancarlo Giorgetti e Luca Zaia non sembrano condividere l’eurocontrarietà del loro Capitano. Certo, preferiscono tacere. Ma il silenzio, in politica, spesso è più assordante di un comizio di piazza o di uno spot in tv. E il silenzio di Giorgetti e Zaia non ha bisogno di esegeti specializzati, si commenta da solo. È un silenzio che esprime il dissenso dei ceti produttivi del Nord nei confronti delle sparate contro l’Europa. È un silenzio che tradisce la preoccupazione di molte imprese del Lombardo-Veneto, timorose di subire contraccolpi negativi, per i propri scambi con il Nord-Europa, da un’eventuale Italexit.

È paradossale la storia della Lega. Quando negli Anni Novanta era incerto l’ingresso dell’Italia nel club dell’euro, il capo Umberto Bossi lasciava intendere chiaro e tondo che avrebbe accelerato sulla secessione della Padania, pur di non perdere il treno dell’Europa monetaria. Il Settentrione d’Italia, secondo Bossi, non avrebbe dovuto aspettare la ripresa del resto della nazione, per accodarsi alla locomotiva comunitaria. Lo avrebbe fatto, si sarebbe agganciato al carro franco-tedesco di propria sponte, a prescindere. Poi è accaduto che l’Italia intera non si è fatta appiedare dalle cancellerie del Vecchio Continente e la Lega è passata dal federalismo spinto a uso interno (con venature filo-europee a uso esterno) fino al nazionalismo hard a uso esterno (con battiti anti-europei ad uso interno).

Un’evoluzione paradossale, dicevamo, che rischia di approdare a un bivio ancora più bizzarro e inimmaginabile, ossia alla spaccatura (formale o sostanziale, si vedrà) del movimento fondato dal Senatùr: da un lato la Lega di Salvini, forte e radicata essenzialmente nel centro-Sud; da un lato la Lega di Zaia e Giorgetti, attiva in larga parte al Nord.

Che Salvini, cui pure non fa difetto il fiuto politico, stia sottovalutando questo rischio, lo si coglie da altri segnali e da altre valutazioni. Stavolta, in occasione dell’ultimo summit europeo, neppure l’ungherese Orban ha giocato di sponda con il suo amico Matteo. Anzi, il premier magiaro ha dato una mano a Conte nella sua resistenza agli strali che gli lanciava il primo ministro olandese Mark Rutte. E se c’è uno scenario che ogni leader deve schivare come la peste, questo è l’isolamento. L’isolamento, oggi, è il principale pericolo sul futuro di Salvini. Persino nel centrodestra, nella sua coalizione di riferimento, l’ex ministro dell’Interno non si trova nella comoda condizione di poter distribuire lui le carte. Giorgia Meloni ha ritagliato per sè uno spazio che la rende sempre più competitiva nei confronti dell’alleato leghista. Silvio Berlusconi, poi, sembra indirizzato verso un altro percorso, verso soluzioni centriste, ancora di più se la futura legge elettorale reintrodurrà in pieno il meccanismo proporzionale.

Ecco perché al posto di Salvini tutto faremmo tranne che puntare sull’isolamento della nostra formazione, in Europa e in Italia. Non solo non ci opporremmo ai sussidi e agli aiuti ricevuti da Conte, ma incalzeremmo il governo per impiegarli al meglio e per apoprofittare del Mes, cioè dei soldi del Fondo salva-stati, decisivi per mantenere la sanità italiana. Troppe condizioni per l’Italia dall’Europa? E perché? Lo Stato italiano non pone condizioni ancora più pesanti ai Comuni in dissesto o in pre-dissesto?
Si dirà che questo auspicio evoca la fantapolitica. Può essere. Ma spesso la fantapolitica è figlia di un realismo ignoto ai leader più machiavellici. L’ipotesi di una spaccatura della dirigenza e dell’elettorato leghista sul caso Europa potrebbe rivelarsi, ad esempio, meno immaginaria di quanto si pensi.

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