L'analisi
Stato padrone in Italia, Stato contestato in Europa
Più trascorrono i giorni, più sembrano diminuire, in Europa, i soldi che dovrebbero confluire nel Recovery Fund, il Fondo - per la ripresa economica dopo la pandemia da Covid 19 - garantito dal bilancio dell’Unione da utilizzare per l’emissione dei cosiddetti recovery bond
Più trascorrono i giorni, più sembrano diminuire, in Europa, i soldi che dovrebbero confluire nel Recovery Fund, il Fondo - per la ripresa economica dopo la pandemia da Covid 19 - garantito dal bilancio dell’Unione da utilizzare per l’emissione dei cosiddetti recovery bond.
La linea dura dell’Olanda contro gli stati euro-mediterranei, giudicati mollaccioni e sprecaiòli, non è sottoscritta da tutta l’Europa del Nord, ma annovera colà parecchi sostenitori. Paradossalmente, l’Italia deve augurarsi che la Cancelliera tedesca non si candidi alle elezioni del 2021, limitandosi a concludere la sua splendida carriera politica nelle vesti di presidente dell’Unione nel semestre europeo luglio-dicembre 2020.
Se, invece, dovesse rivedere il proposito, già annunciato, di ritirarsi dal proscenio pubblico tedesco, difficilmente Angela Merkel potrebbe affrontare a cuor leggero il giudizio del suo elettorato nazionale atteggiandosi a colomba nei riguardi del Paesi più indebitati. Se così facesse, infatti, se si presentasse carica di solidarietà e comprensione verso i partner del Sud Europa, le urne teutoniche potrebbero procurarle una cocente delusione. Anche le pietre sanno che le popolazioni dell’Europa settentrionale, compresa quella germanica, sono più intransigenti dei loro rappresentanti politici verso le nazioni con i conti troppo in rosso. Loro alzano la voce anche quando questo assunto non è dimostrato. La loro tesi è perentoria, già ratificata durante la crisi greca di qualche anno fa: gli operai tedeschi non possono né devono pagare più tasse per sostenere le «spese allegre» di altri governi. Punto.
Purtroppo l’Italia, ma non solo l’Italia, contribuisce a diffondere questo disco super-gettonato nelle cancellerie nord-europee. La resurrezione dello stato padrone (in verità da noi mai seppellito) non giova alla causa del Belpaese a Bruxelles. Riesce difficile spiegare, nel Vecchio Continente, come faccia lo stato italiano, in piena emergenza sanitaria ed economica, a trovare i soldi per entrare nel capitale di Alitalia, Autostrade, ex Ilva, Monte dei Paschi, Banca Popolare di Bari eccetera e, nello stesso tempo, chiedere più aiuti (senza condizioni) all’Unione Europea.
Il pressing comunitario fu decisivo, nei decenni scorsi, per lo smantellamento di Iri ed Efim, due carrozzoni colabrodo che dilapidavano i soldi dei contribuenti italiani, tanto da trasformarsi, strada facendo, in simboli di dissennatezza gestionale. Ora quel tipo di sistema (a partecipazione statale) sta tornando in auge, col rischio che si riproponga l’antica degenerazione clientelare. Il che è destinato a porre più di un problema all’intera Europa.
L’integrazione economica europea, concepita per preparare l’unione politica, si fonda su pochi chiari princìpi: sì al mercato interno aperto, sì alla moneta comune, sì alla concorrenza, sì alla stabilità dei prezzi, no ai monopòli, no alla monetizzazione del debito, no all’interventismo pubblico e agli aiuti di stato. Non è semplice attenersi ai precetti fondativi, non a caso le infrazioni da parte degli stati dell’Ue sono più numerose delle conquiste muliebri di Giacomo Casanova (1725-1798). Ma non è neppure ipotizzabile che alcuni governi nazionali possano disinvoltamente ignorare il catechismo originario della Comunità, senza, per questo, mettere in forse la stessa sopravvivenza dell’Unione.
Per intenderci. Il pericolo, per l’Italia, è che si ripresenti la condizione comatosa di inizio anni Novanta, curata dall’accordo (divorzio Banca d’Italia-Tesoro) tra Nino Andreatta (1928-2007) e il belga Karel van Miert (1942-2009), che diedero vita alla stagione delle privatizzazioni (purtroppo non precedute dalle più indispensabili liberalizzazioni). In tal caso, ci ritroveremmo punto e a capo, con la prospettiva dell’Italexit, stavolta causata dalla sostanziale incompatibilità tra il modello (stato regolatore) auspicato dall’Europa e il modello (stato padrone) rilanciato dall’Italia.
Purtroppo, non è solo la classe politica dello Stivale a provare nostalgia, o nuovo interesse, per lo stato imprenditore, per lo stato factotum. Anche buona parte della borghesia italiana non sembra ostile allo stato onnipervasivo. In ciò confermando le previsioni dell’economista austriaco Joseph A. Schumpeter (1883-1950) che in Capitalismo, socialismo e democrazia profetizzò la resa dell’industria privata medio grande, che si sarebbe burocratizzata assumendo una mentalità conservatrice, pronta a scambiare la libertà d’iniziativa con la stabilità assicurata dal governo. Ovviamente, non tutti gli imprenditori smaniano dalla voglia di accordarsi con i politici, ossia di accedere alle protezioni in grado di consentire loro di godersi le straordinarie ricchezze accumulate. Ma è indubbio che il capitalismo politico, il capitalismo relazionale, in Italia è più sviluppato che altrove, la qual cosa agevola il sentimento anti-impresa diffuso non solo nei palazzi del potere, ma anche in molti cenacoli mediatico-culturali.
Ma potrà restare a lungo in Europa un Paese orientato ad schivare o a sovvertire i pilastri su cui poggia l’Unione? Più che tecnica, finanziaria, economica, algebrica, la questione, cioè la divisione, rischia di essere culturale. Più che le cifre del debito pubblico o del rapporto deficit-Pil, saranno forse le nostalgie dello stato pigliatutto a rendere problematica la presenza dell’Italia nell’Europa dell’euro e della condivisione dei bilanci.
Ecco perché ogni giorno che passa, nonostante i proclami di solidarietà anti-Covid, cresce il fronte europeo teso a ridimensionare il pacchetto di aiuti agli stati, come l’Italia, più colpiti, sul piano economico, dalla pandemia. La collezione di aziende private italiane tornate sotto l’ombrello pubblico, non rappresenta un convincente biglietto da visita per un Paese che invoca uno sforzo straordinario da parte degli altri soci dell’Unione.
È il cane che si morde la coda. Alla sbandierata solidarietà interna non corrisponde l’invocata solidarietà esterna, specie quando le spese delle singole nazioni continuano a salire senza particolari tentennamenti e rallentamenti.