L'analisi
In processione da Draghi con un’offerta poco speciale
Un conto è andare in pellegrinaggio da Draghi offrendogli la scrivania oggi affidata a Giuseppe Conte. Un conto sarebbe andare da Draghi proponendogli, per inizio 2022, l’incarico oggi ricoperto da Sergio Mattarella
A chi, animato da buone intenzioni, fremeva dalla voglia di regalargli preziosi consigli, il buon Enzo Biagi (1920-2007) era solito replicare così, tagliando corto: «Grazie, ma so sbagliare da solo». Non sappiamo se Mario Draghi, già presidente della Bce e già governatore della Banca d’Italia, stia rispondendo alla maniera (fulminante) della buonanima di Biagi di fronte al pressing di quanti lo vogliono a Palazzo Chigi alla guida di un governissimo, di un governo di solidarietà nazionale, di un governo di larghe intese, insomma di un governo di salute pubblica affidato a un (da tempo) acclamato salvatore della patria.
A giudicare dagli esiti platonici delle continue processioni nel buen retiro di Draghi (già salvatore dell’euro) si direbbe che il Nostro sia tutt’altro che disposto a cedere al marcamento a uomo di gruppi e sotto-gruppi, nonché alle lusinghe di pre-amici e pre-alleati vari, e sembrerebbe che lui abbia fatto propria una massima di Voltaire (1694-1778): «Non ci si pentirà mai di aver taciuto, ma sempre di aver parlato».
Se c’è un ruolo che tutti i titolari di lusso della Repubblica, finiti provvisoriamente in panchina, farebbero bene a schivare con la disinvoltura degna del miglior Paolo Maldini, quello del presidente del Consiglio è in cima alla lista.
Già Alcide De Gasperi (1881-1954), leader di un partito, la Dc, che, nel 1948, sfiorò la maggioranza assoluta dei voti, dovette mettere in conto più di una crisi di governo nel corso della sua stagione da presidente del Consiglio. Identico travaglio toccò ai suoi successori, sùbito bersaglio dei franchi tiratori specializzati nel fuoco amico. Neppure l’avvento del sistema semi-maggioritario riuscirà a corroborare la figura del capo del governo, che tutto diventerà tranne che un capo.
Draghi è sicuramente edotto, in materia. Da presidente della Bce, ossia da scudiero dell’euro e della stabilità monetaria, ha interloquito con numerosi governanti italiani, davvero troppi rispetto agli standard di rotazione degli altri Paesi europei, i cui premier sono premier di diritto e di fatto e, soprattutto, tendono a completare il loro quadriennio o quinquennio ai vertici di un esecutivo.
Draghi, inoltre, sa che la politica è la suprema arte dell’inganno, dell’ipocrisia, del calcolo, del doppiogiochismo. Le promesse di oggi sono le trappole di domani. Non ci vuole molto a trasformare un saggio pregato da tutti in un ostaggio deprecato da tutti. E siccome la presidenza del Consiglio non dispone di rifugi, di protezioni a prova di bombe (politiche, si capisce), anche il più ingenuo tra gli uomini capirebbe sùbito che trasferirsi a Palazzo Chigi costituisce, mai come ora, un azzardo da infarto.
E poi. Da un personaggio come Draghi al governo tutti si aspettano, si aspetterebbero provvedimenti opportuni e necessari, non popolari o pupulistici. I primi giorni, le decisioni di Draghi verrebbero accolte dal plauso generale, ma dopo? Non ci vuole un oracolo per prevedere il cambio di linea nel giro di poche settimane: «No, così non va. Non si può affrontare la situazione dei conti pubblici con un criterio ragionieristico. Lui ragiona ancora con la logica della Bce...». E via blaterando con le frasi fatte, ripescate dal proverbiale repertorio del nulla elevato a pensiero.
Né può giungere in soccorso al malcapitato presidente del Consiglio un curriculum da fuoriclasse assoluto. Anzi. Più un cursus honorum è carico di allori, più si prova gusto nel demolire il suo prestigioso detentore. Non si è salvato nessuno tra i mostri sacri della storia patria. Non si vede perché si debba fare eccezione con Draghi o con altri big del suo calibro.
C’è una sola dimora che sfugge al destino testé riassunto: il Quirinale. Per certi versi l’antica dimora dei papi e dei sovrani produce, da sempre, effetti contrari a quelli di Palazzo Chigi. Chi entra a Palazzo Chigi, comincia a indebolirsi dal giorno dopo. Chi sale al Quirinale, comincia a rafforzarsi da un minuto dopo, fino al punto che, strada facendo, si ricomincia, periodicamente, a parlare di mutazione della Repubblica, di presidenzialismo strisciante, di presidenzialismo supplente, di presidenzialismo effettivo. Il che accade, chiunque scali la vetta del Colle.
Del resto era inevitabile. In un sistema politico e costituzionale calibrato sulla contrapposizione tra poteri deboli, solo una magistratura blindata da sette anni di stabilità e da un pacchetto di poteri tutt’altro che protocollari, poteva assurgere a snodo essenziale del Paese, a semaforo imprenscindibile per ogni cammino da intraprendere o da bloccare.
In effetti, è andata e va così. Tanto che oggi la presidenza della Repubblica rappresenta il più chiaro oggetto del desiderio di ogni leader provvisto di truppe e ambizioni.
Draghi è uomo di conti e di bilanci. È il primo a sapere che, anche come suggeritore o correttore della politica economica, il capo dello stato può fare tanto, molto di più di quanto il medesimo soggetto potrebbe fare, agendo in proprio, nelle vesti di presidente del Consiglio.
Morale. Un conto è andare in pellegrinaggio da Draghi offrendogli la scrivania oggi affidata a Giuseppe Conte. Un conto sarebbe andare da Draghi proponendogli, per inizio 2022, l’incarico oggi ricoperto da Sergio Mattarella (intenzionato, pare, a respingere ogni ipotesi di bis presidenziale). Ecco. Un Draghi guardiano dei conti e ispiratore delle scelte economiche sarebbe molto più utile nella (ex) reggia più bella del mondo che nella magione chigiana affacciata su Piazza Colonna.