Toccherà a Domenico Arcuri, dopo aver garantito a tutti gli italiani le mascherine a 50 centesimi, produrre l'acciaio per conto dello Stato? La domanda rischia di apparire retorica dopo che ieri mattina il tavolo con commissari straordinari dell'Ilva, Mise, Mef e Invitalia ha deciso di delegare alla struttura commissariale il compito di richiamare ArcelorMittal al rispetto del contratto, comprese le modifiche stilate il 4 marzo scorso a Milano, demandando invece al numero 1 di Invitalia di definire le modalità dell'investimento pubblico nel settore.
L'immagine pubblica di Arcuri con l'incarico di commissario straordinario per l'emergenza Covid-19 ha inevitabilmente risentito della sovraesposizione mediatica e del carattere poco accondiscendente del 57enne manager pubblico, più bravo a risolvere problemi che a rilasciare interviste. Chi lo ha visto all'opera, però, ha un'idea diametralmente diversa da quella generata dal luogocomunismo isterico del momento mascherina (peraltro felicemente risolto, le mascherine si trovano a 50 centesimi praticamente ovunque, ma la normalità, si sa, non fa notizia). Apre un dossier, individua subito gli aspetti critici, indica le soluzioni.
Chi si è seduto a un tavolo con Arcuri riconosce che i 13 anni alla guida di Invitalia, e ancor prima all'Iri, ne hanno fatto un manager concreto e fattivo come pochi, specie in ambito pubblico.
Forse è davvero l'uomo giusto per affrontare con decisione, fermezza e competenza un dossier così difficile e incandescente come quello dell'ex Ilva, attorno al quale spesso, specie dopo gli anni della famiglia Riva, si sono affacciati personaggi che davano per funzionanti altiforni spenti da decenni, per prontamente adottabili soluzioni produttive, come l'idrogeno, che vedranno la luce chissà tra quanto, realizzati volutamente a ridosso della fabbrica appartamenti costruiti prima dell’Italsider pubblica e destinati, forse, a sopravvivere al siderurgico.
Il tempo dato ai commissari per trovare una soluzione con la famiglia Mittal, sempre più con le valige in mano (per quanto i manager mandati dal quartier generale di Londra a Taranto da tempo sono andati via) e sempre più attenta a limitare i danni economici, è fine luglio, non proprio domani ma certo non è questione da poter risolvere in un paio di call. Nel frattempo spetterà proprio ad Arcuri mettere assieme una compagine tricolore che con un mix di capitali pubblici e partner industriali privati, in grado di dare un futuro all’acciaio italiano.
Taranto guarda e aspetta, più o meno fiduciosa. Il tavolo Cis, con il suo miliardo di dotazione e proprio con Invitalia come stazione appaltante, non ha brillato finora per operatività ma da due mesi a questa parte, anche grazie alla delega conferita dal premier Conte al sottosegretario tarantino Mario Turco, le cose sembrano cambiate, dagli annunci si sta passando ai progetti concretamente realizzabili, un metodo che se applicato all’ex Ilva non potrà che produrre risultati positivi.
A Bari, invece, ieri è andata in scena tra il governatore Michele Emiliano e i sindacati l’ennesima replica di un rapporto basato sulla reciproca diffidenza, generata – al netto di prese di posizione a prescindere – da un equivoco di fondo, credere che la Regione Puglia voglia chiudere la fabbrica. Anche ieri Emiliano ha sfidato i sindacati sulla innovazione del processo produttivo, fatto che però ha come conseguenza – naturalmente temuta da chi rappresenta i lavoratori - la riduzione dell’occupazione. Ora però che anche ArcelorMittal annuncia esuberi pur mantenendo ferma l’opzione del ciclo integrale, ci sono davvero le condizioni per marciare uniti verso l’unico traguardo possibile: una fabbrica moderna, con sempre meno carbone, e una valutazione di impatto sanitario a garanzia di tutto e tutti.