Si dice che il Paese uscirà più unito e più forte dal terribile choc del coronavirus. Sicuro? Alcuni atteggiamenti e alcune decisioni lasciano presagire il contrario. Non si può richiamare di continuo la figura di Winston Churchill (1874-1965) e dimenticare che nell’ora più buia lui promise fatica, sudore e sangue ai suoi compatrioti, non ricchi premi e cotillons. Così come non si può evocare la ripresa post-bellica dell’Italia in macerie e dimenticare che Alcide De Gasperi (1871-1954) chiese e ottenne, dagli italiani, sacrifìci immani, uniti a un profondo senso del dovere. Nessuno, allora, promise nulla di concreto, di materiale, fatti salvi gli aiuti che arrivarono dall’America. Fu la voglia di ricominciare, sgobbando e sudando, a generare quel miracolo economico, i cui effetti benefici (per fortuna) durano tuttora.
Adesso, invece, non si sta prospettando al Belpaese la medicina (lavorare di più) che guarisce tutti i mali economici, bensì una medicina alternativa: lavorare di meno (meno orario, stesso salario). Tanto, poi, provvederà lo Stato a distribuire la ricchezza attraverso un reddito (universale) sempre più alto e diffuso. Mah. E chi provvederà all’accumulazione delle risorse da dividere successivamente tra tutti? Ammesso che avesse voglia di farlo, vi provvederebbe una minoranza sempre più risicata di volenterosi, minoranza che, ovviamente, si attirerebbe sùbito gli strali di chi vedrà in essa privilegiati e sfruttatori, fino al punto di convincerli a gettare la spugna.
Si delinea quella che il sociologo Luca Ricolfi ha già definito società parassita di massa. Finora era il 30-35 per cento (dati ufficiali) della popolazione italiana a farsi carico del restante 65-70%. Ma la forbice pare destinata ad allargarsi, se prevarrà la subcultura del non lavoro e dell’assistenza, subcultura non meno grave - perché spinge all’inazione -, ai fini della crescita economica individuale e collettiva, del virus approdato dalla Cina.
Anche le scelte tese a contrastare le attuali micidiali difficoltà delle imprese non sembrano orientate al recupero dell’etica del lavoro e della responsabilità, oltre che all’obiettivo di assicurare più produttività e trasparenza.
Non era necessario pretendere una montagna di carte e cartoni per accedere ai finanziamenti anti-crisi. La soluzione più semplice e ragionevole era a portata di mano: moratoria della tassazione per due o tre anni, e poi si vede. In questo modo i soldi sarebbero arrivati sùbito agli imprenditori, sia pure indirettamente, ma senza il rischio (inevitabile) di rifiuti, ritardi burocratici, maledizioni, malintesi, trucchi, problemi con le banche e delle banche eccetera. Questa soluzione avrebbe comportato pure un altro pregio mica da poco: più trasparenza. Oggi anche un evasore fiscale patentato può ricevere denaro dallo Stato, dopo averlo beffato per tanti anni. Con la linea degli aiuti indiretti, ossia con la via della detassazione, gli infedeli del fisco non avrebbero potuto lucrare altri quattrini. Finora non hai pagato mai, o hai pagato poche tasse? Nulla o poco riceverai in cambio. Invece andrà a finire che la Razza Furbona riceverà dallo Stato più quattrini di quelli che (non) ha mai versato, con tanti saluti alla declamata moralità e all’«ingenuità» dei contribuenti onesti.
Idea troppo severa quella testè illustrata? Forse. Si poteva, allora, restringere il programma degli benefìci alla platea dei leali col fisco. Invece, no. Todos caballeros. Tutti meritevoli di sostegno. Tutti uguali. Un segnale poco rassicurante, un altro invito a continuare a non rischiare mai soldi propri, ma sempre quelli dello Stato o del sistema bancario (risultato finora: sofferenze a go-go).
Ma anche la politica verso il debito pubblico non merita una standing ovation. Intendiamoci. Servono i quattrini per ripartire. Ma un conto è indebitarsi per produrre, per crescere (e quindi creare vera occupazione), un conto è indebitarsi per fare clientela o finta occupazione. Il debito pubblico non può diventare un mito infinito come Marilyn Monroe (1936-1962). Il debito significa tassazione differita, disincentivo agli investimenti (specie dall’estero), crisi cronica. Certo, c’è debito e debito. C’è il debito sostenibile e c’è il debito insostenibile. Ma la valutazione dipende dal tasso di affidabilità di un Paese. L’Italia lo è? L’Argentina (poco stabile e poco credibile) saltò nel 2002 con un debito (appena) al 62%. Il Giappone (stabile e credibile) ha la fiducia degli investitori, nonostante un debito del 238% (cifra lorda, il debito netto prima del virus era del 140%). Ma il Giappone è un esempio di serietà, come dimostrano i livelli di tassazione e istruzione della sua popolazione. Inoltre, gli investitori stranieri e interni sanno che i governi di Tokio prendono sempre decisioni rigorose quando serve. Non scappano mai di fronte alle responsabilità. E la classe politica italiana? Dubitare è lecito.
I giovani della Penisola sono le vittime principali dell’indifferenza collettiva nei confronti della questione debito pubblico. Gioverebbe soprattutto a loro, ai più piccoli, (stiamo sognando), la nascita di un partito per la disciplina di bilancio. Anche perché, prima o poi, qualcuno dovrebbe spiegare la seguente contraddizione: come mai se una famiglia lascia in eredità una montagna di debiti ai propri figli viene circondata dalla disapprovazione e dalla commiserazione di tutti, a iniziare dagli eredi; mentre se invece è lo Stato a lasciare montagne di debiti alle future generazioni, il ceto politico viene accolto dal plauso generale, perché dà prova di solidarietà e generosità. Solidarietà? Generosità? O Egoismo?