L'Editoriale
Studenti e professori, una lezione di scuola
Le scuole italiane resteranno chiuse fino a settembre. Otto milioni di studenti e un milione di insegnanti scrivano sul diario questo compito. Non è specificato di quale anno. Almeno non con diffusione rassicurante. Questo è quanto sono riuscito a capire a proposito della sorte di questo anno/i scolastico/i a seguito della emergenza detta «Corona virus» che sta affliggendo il mondo intero e, segnatamente, l’Italia. E, per informare gli italiani della situazione, quasi tutti gli organi di stampa italiani, i giornali, i dignitari, i politici eccetera, hanno usato molto l’inglese, inteso come lingua.
Ecco una frase a mo’ di esempio, pronunciata dal dignitario/manager di turno o scritta dal giornalista che ha molto viaggiato: «La task force per affrontare il lock down ha un manager di provata esperienza che non teme il pressing delle parti sociali e agirà come il premier si aspetta da lui. Per quanto riguarda la scuola si continuerà con lo smart working fino a quando non sarà garantita la end line della pandemia». La parola pandemia, ereditata dal greco antico, sarà presto sostituita da un più adatto neologismo di origine inglese.
Intanto le scuole restano chiuse e a giugno saranno tutti promossi. Quanto agli esami di maturità, ed è l’unica good news, saranno affidati agli insegnanti che hanno lavorato con gli studenti e non sostituiti da professori esterni che erano considerati utili alla lucida imparzialità necessaria per vigilare sulla conclusione del corso di studi. Ma svolgendosi tutto per interposta realtà informatica, è inutile recriminare.
Nel 2008, all’apertura dell’anno scolastico, ci fu una protesta spontanea di studenti e professori che spostarono lo svolgersi delle lezioni e dell’attività didattica fuori degli edifici scolastici: per strada, nelle piazze, nei giardini pubblici. Una sorta di collettivo marinare la scuola per studiare: insegnando e imparando meglio di quanto la ministra di allora meditasse di organizzare a spese di una scuola moderna e democratica. I curiosi si affannino ad andare a cercare il nome della ministra: in Internet.
Oggi si studia fuori della scuola per drammatica necessità. Questo, nei giorni in cui gli studenti anelano di tornare nelle loro scuole, mi ha alluvionato di ricordi.
Non ricordo più in quale liceo, sono tre o quattro quelli che ho frequentato, ho fatto amicizia con uno scheletro. Stava lì, nella sua teca di vetro un po’ traballante, appeso per un chiodo a immalinconire con la sua come dire, estrema nudità i visitatori: gli alunni, cioè, che avevano avuto la fortuna di essere guidati in una lezione fuori dall’aula. Costoro non mancavano di rivolgere al reperto un cenno di saluto o qualche sgangherata battuta.
S’era felici le rare volte, in cui si riusciva a recarsi in aula di fisica o di chimica per contemplare quel sommario di anticaglie dette sussidi didattici o in un’aula attrezzata con un proiettore che mitragliava filmini vetusti in cui si potevano ammirare panorami artistici e antichità greco-romane. E chi non rammenta gli animali impagliati, i sassi etichettati, le tavole del Mendeleiev ingiallite e piene di mosche spiaccicate? Era una festa, così com’era una festa l’ora di educazione fisica in cui si poteva evadere dalla cattività dell’aula per sciamare in palestra a sgranchirsi le gambe e la testa al modico prezzo di un tentativo di scalare la pertica. I più bravi guadagnavano le simpatie del professore saltando la cavallina. Quando «correre la cavallina» cambiò di significato, le simpatie del professore persero importanza.
Per non parlare, poi, della festa grande di poter giocare a pallavolo. Nei rigori della didattica un poco ammuffita del dopoguerra, nel monumentale «Orazio Flacco», per esempio, non circolava troppo quella scapigliatura che fu, poi, imposta dai furori sessantottardi e, dunque, certe evasioni erano già tanto. Dunque, il fatto stesso di tenere una lezione in un luogo che non fosse l’aula tradizionale suggeriva un che di ribelle, un’infrazione alle regole, una botta di vita. Con lo scheletro. Ricordo il rammarico che, un giorno, afflisse alcuni habitué del «fare x», come diciamo a Bari per marinare la scuola, che avevano passato la mattinata al lungomare, nell’apprendere che s’era fatta lezione di storia dell’arte nell’aula delle proiezioni e che avevamo visto delle diapositive.
Nel lontano 2008 trovai, quindi, non solo, appropriato, originale ed efficace che, per protestare contro le sciagurate riforme imposte o solo minacciate dalla Ministra si facesse lezione fuori dalla scuola, all’aperto, ma, anche, affascinante, suggestivo. Oggi la chiusura delle scuole per obbligo medico-sociale mi fa riaprire l’album dei ricordi, certo, perché, oggi come allora voglio attuare simbolicamente un collegamento ideale e naturale tra scuola, cultura, società, ambiente. Le immagini di studenti che attorniavano professori e maestri, nelle piazze e nei giardini, in combutta con cittadini interessati e curiosi per ascoltare le lezioni, rincuorarono ed entusiasmarono.
E, oggi, sento, intuisco che studenti e professori si sono schierati per la disciplina degli studi, oggi, quando la società, la patria, chiedono un atto di coscienza collettiva. Anche se rimpiangeranno la bella lezione frontale si ribellano, sì! Non alla chiusura delle scuole, alla pandemia, studiando come e più di prima. Con i loro maestri.
La ribellione se divampa per giuste rivendicazioni nel mondo della scuola e dell’Università ha sempre potuto vantare un carattere di concordia tra i soggetti, tra i protagonisti del futuro sociale. Come avrebbe detto il Piaget, vince e convince questa armonia della rivolta che spodesta la scuola del suo aspetto inutilmente coattivo per ricordare con l’ariosità di questa moderna accademia peripatetica che scuola è dovunque si insegni e si impari, che gli insegnanti, quelli bravi, sanno benissimo che si insegna, ostinatamente si continua ad insegnare, per, ostinatamente, volere continuare a studiare e ad imparare.
Come scriveva Seneca: «Homines dum docent, discunt». Traduco in inglese?