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Viva la memoria nel segno del Papa e del Vangelo

 
Michele Mirabella

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Michele Mirabella

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Michele Mirabella

Domenica 05 Aprile 2020, 16:02

Ho ancora negli occhi, nella mente, nel repertorio mite della memoria di questi giorni crudeli che stiamo vivendo, una scena rappresentata da un uomo come noi investito da una sventura che non ci riesce di pensare sopportata da Dio. Quest’uomo è il Papa, il Francesco che la Provvidenza ha voluto farci incontrare sulla strada che è comandata alle nostre generazioni, da Dio, di percorrere in tutte le sue stazioni.

E la scena è quella impartita come un sacramento teatrale in cui la particola è l’immagine, un’eucarestia del millennio della comunicazione globale: il vuoto di una piazza immane, in grado, perché così fu voluta dalla committenza religiosa, di abbracciare simbolicamente il mondo.

Tutta la nuova ecumene universale si riunisce intorno al Pastore nella virtualità immane di quel vuoto massmediologico che tutta l’umanità rappresenta: cristiani e non cristiani. Figli di Dio. (Ne son passati secoli dalla carta risicata al mondo piccolo di Anassimandro di Mileto).

Oggi il mondo sta lì, attonito e commosso e si lamenta all’unisono con le sirene delle auto delle forze dell’ordine e delle ambulanze che cantano a Dio da lontano, al confine della piazza-mondo. E il Pastore nella luce della sua solitudine, pregando per noi, ha letto una pagina dell’eterna buona novella che la modernità afflitta in cui stiamo vivendo aspetta: il Vangelo secondo il Pastore nostro. E secondo l’umanità che soffre, che ha paura.

Bisogna leggerlo, il Vangelo. Come un racconto intimo, emozionante, ma terreno fino alla brutalità che deriva da quella potenza di sintesi realistica che rende la narrazione concreta e fisica restituendoci, nuda, la Buona Novella. Niente di più. Brutalizzato da certo catechismo rustico e puerile, spesso da bambini ci venne inflitto come la perentoria lezione che scandiva il calendario liturgico spogliando le pagine della poesia inarrivabile in cui la vicenda stessa consiste. Ed io, bambino, volli leggere il Vangelo dopo aver visto una processione dei Misteri della mia Bitonto. Fu come se dallo spettacolo volessi risalire al copione. E per me fu facile e inevitabile far collimare immagini e parole. L’hanno fatto i pittori nell’ambientazione delle storie sacre, da sempre. E la memoria vola ai pellegrinaggi quattrocenteschi picareschi e affollati, alle fustigazioni tra giannizzeri, ai giudizi di Pilato marmorei e solenni, alle geometriche perfezioni degli “Ecce homo”, alla Maddalena del Masaccio prostrata con le braccia che urlano spalancate di rosso ai piedi del patibolo santo, alle spietate “Viae Crucis” del cinquecento corrusco d’ori e lussuoso d’armature e mantelli di seta, al truce e ombrato Golgota del seicento, fino all’allarmante e vivida prospettiva del Cristo morto del Mantegna tra ruderi e trasandatezze archeologiche e all’urlo salvifico del Crocifisso di Dalì confitto sul mondo come un avvertimento escatologico ineludibile.

Due millenni di religiosità e speranza raccontati dall’iconografia ispirata nell’infinito immaginario dell’uomo dalle pagine di un libro semplice fino all’impertinenza, onesto, puro, bellissimo. Nel mio dramma minuscolo di bambino ambientai Gerusalemme nel borgo antico del mio paese, lì dove va a collimare con la piazza grande che prelude alla città nuova vigilata, pur sempre, dalla rotonda maestosità del torrione. E le vie strette e ombrose, i vicoli, le corti contennero per i miei occhi stupiti e candidi le stazioni tormentate della Via Crucis. Poco importa se i poveri Cristi ansimavano, traballando sulla predella portata a braccia, tra un manifesto di pubblicità dei cinti erniari e l’insegna del venditore di bombole del gas, scansando il noleggiatore di biciclette o la fontanella dell’EAAP. Poco prima avevano traballato davanti alla frasca della cantina sulla cui porta era inchiodata l’ammonizione che recitava “la persona civile non bestemmia e non sputa a terra”. Per me il gasista diventava il Cireneo e i vigili campestri, impettiti nell’uniforme nera e azzurra, erano i legionari di Pilato. E le pie donne erano tutte lì con quel lutto interminabile e incoativo che era delle nostre donne del sud quando le guerre e la fatica aprivano vuoti terribili nelle case: matres dolorosae, matres lacimosae, matres dulcissimae che s’affollavano intorno a Lei, la Virgo patiens che avanzava sobbalzando dietro la culla dorata del Figlio sacrificato. In abito lungo di pizzo nero, velata, orante, veniva verso di noi mostrando un volto esangue con rossori di pianto e di gioventù. Bellissima e, direi, elegante, recava delicatamente stretto tra le dita d’avorio, un fazzolettino bianco ricamato di lacrime. Più tardi a Parigi avrei visto una Traviata in teatro con un abito identico. Ben altri i tormenti e le ansie. Ancora oggi mi vergogno del paragone che rilevai, ma sono certo che Maria m’ha già perdonato. Già da quegli anni primaverili fantasticavo di palcoscenici e teatri e set cinematografici e mi riusciva facile e spontaneo immaginare lo spettacolo che si poteva trarre dalla lancinante verità del copione-Vangelo.

Io ambientavo pagine evangeliche e processione nella scena che m’era famigliare e trasformavo venditori di palloncini e dolciumi in sbigottiti Giudei Gerosolimitani e i carabinieri col pennacchio in angeli vendicatori facendo recitare il dramma più perfetto e bello nello spazio che meglio conoscevo: il mio paese. La storia raccontata dalla processione si fermava sul Calvario. Il dramma tratteneva il fiato e sembrava abbandonare gli spettatori alla parte, diciamo così comico-realistico e borghese con la sfilata del sindaco e dei maggiorenti. Poi veniva la banda e commuoveva tutti con la marcia funebre solenne e dolcissima.

Quest’anno non succederà, se non nella memoria nostra e sarà una preghiera germogliata nella meditazione del Papa in una grande piazza vuota, ma non deserta. La processione dei misteri cammina sempre nei nostri paesi e non si ferma se non lasciando alla passione nostra il compito di andare a cercare altrove il lieto fine: in quel copione impeccabile, in quella scena fulminea e perfetta, in quella battuta essenziale in cui mette fiori la speranza: “Cosa cercate? Non è più qui. Egli è risorto.” Irrappresentabile. Bisogna leggerlo, il Vangelo.

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