Passano gli anni, ma il passato non passa. Specie nel Sud l’«eterno ieri» sembra inarrestabile, una condanna difficile da ribaltare. Il divario tra le due Italie aumenta, con un’aggiunta tutt’altro che rassicurante: la linea della palma di sciasciana memoria sale verso il Nord col ritmo di un’auto da corsa. Si alternano uomini e coalizioni di governo, ma il Paese e il Sud in particolare continuano a viaggiare con il freno a mano. L’unico programma realizzato finora richiama, dopo più di un secolo, il proclama del cinico Duca d’Oragua nel romanzo I Viceré di Federico De Roberto (1861-1927): «Ora che l’Italia è fatta, dobbiamo fare gli affari nostri».
Salvo isolate eccezioni, non si riesce mai a concepire lo sviluppo senza il protagonismo della mano pubblica, dell’onnipotente decisore politico. La storia viene da lontano. Fu soprattutto il siciliano Francesco Crispi (1818-1901) a far concimare il terreno su cui prosperò quella borghesia funzionariale - sùbito sbertucciata da economisti come Vilfredo Pareto (1848-1923) -, che tuttora, alternando favori e corsie preferenziali, detiene le chiavi di accesso al Sistema. Non a caso, annotava sconsolato Pareto, in questo scenario, tribalismo delle masse e cinismo dei potenti finiscono per marciare assieme.
Non sarebbe mai troppo tardi per il Sud assistere a quella rivoluzione borghese che non c’è mai stata, perché la microborghesia (la grande non c’era) ha sempre preferito infeudarsi nelle fortezze burocratiche anziché crescere e mettersi a capo di un rivolgimento sociale e produttivo. La massa dei borghesi, infatti, non è mai stata sensibile ai ragionamenti di libertà, preferendo i più facili accomodamenti della protezione e della clientela politica.
Oggi, nonostante i progressi compiuti, siamo sempre al punto di partenza, anche perché il dislivello tra Settentrione e Meridione non accenna ad accorciarsi, anzi. La Puglia è fra le regioni che stanno meglio. Eppure le emergenze si riconcorrono e si sovrappongono alla velocità della luce. La Puglia, per dire, ha prenotato, per l’anno che sta per spuntare, una serie di «fatiche» che stroncherebbero un redivivo Ercole. Sarà sempre più problematico venirne fuori, non già perché la classe politica non brilli per acume e visione condivisa, ma anche o soprattutto perché la società civile non è molto cambiata da quella (ora parassitaria ora predatoria) contro cui si scagliava Gaetano Salvemini (1873-1957). E se non c’è una classe evoluta in grado di incalzare chi sta al governo, addio rilancio, addio ripresa.
Tra pochi mesi, i pugliesi torneranno alle urne per rinnovare il parlamentino regionale e eleggere il loro presidente. Forse è ancora presto per pretendere che si debba entrare sul serio nel merito delle questioni, dei contenuti delle proposte sul tavolo (quali?). La griglia dei candidati è ancora incompleta. Il centrodestra, ad esempio, deve scegliere il suo candidato alla presidenza. Ma l’impressione generale è che, ovunque, nelle forze politiche e culturali, manchi la voglia di misurarsi con un progetto Puglia degno di questo nome e che il tatticismo-trasformismo prevalga su ogni altra aspirazione/considerazione. E pensare che i guai non mancano, basti sfogliare le pagine dei giornali.
Purtroppo, se la società civile è quella che è, se la potenziale borghesia evoca i personaggi di De Roberto, c’è poco da sperare sulla selezione della nuova classe dirigente. Forse esagereremo, ma è indubbio che ogni rappresentanza assembleare regionale (il discorso può valere anche per il livello nazionale) fa rimpiangere quella che l’ha preceduta. E così, di regressione in regressione, quale e come sarà la caduta finale?
Servirebbe una sorta di patto non scritto tra i partiti in gara per escludere dalle liste i nomi meno qualificati e meno dotati sul piano politico-amministrativo-gestionale-morale. Ovviamente stiamo vaneggiando. La lotta politica si rivela sempre più aspra. Pur di vincere non si va per il sottile, nelle candidature e negli appoggi esterni alle candidature. Il che non induce all’ottimismo sulla qualità della prossima nomenklatura e di conseguenza non lascia ben sperare nella gestione dei soldi sganciati dai contribuenti.
Ma la classe dirigente è tutto in un territorio. Una classe dirigente mediocre non contribuirà mai alla rinascita delle sue popolazioni. Il presidente Conte ieri ha ribadito il suo impegno per il Mezzogiorno, dal piano infrastrutturale al 34% dei finanziamenti pubblici. Ma se latitano le competenze e le buone amministrazioni, tutti i sogni muoiono all’alba.
Purtroppo il fattore voto rappresenta la croce e delizia del Sud. Qui il voto di preferenza si traduce, il più delle volte, in un atto di disperazione, in una chiamata dell’ultimo minuto verso l’invocato benefattore-protettore. Non a caso il voto di preferenza viene utilizzato in larga parte nel Mezzogiorno, mentre nell’Alta Italia si tende a votare essenzialmente il simbolo di un partito o di una coalizione. Da Roma in giù la personalizzazione della politica spesso assume sembianze metà clientelari metà palingenetiche, cui inevitabilmente seguono le delusioni più atroci.
Questa spirale però andrebbe interrotta, per una ragione specifica: bisogna impedire che ignoranza e malgoverno continuino a procedere di pari passo.
Intendiamoci. La Puglia non è una regione arretrata o spacciata, nonostante le drammatiche crisi che hanno scandito l’anno che sta per cessare. La Puglia resta la regione più dinamica dell’intero Mezzogiorno. Ma non basta. La Puglia non può lasciarsi sfuggire un’occasione dopo l’altra, anche perché il resto del Mediterraneo non aspetta altro. Una titubanza di troppo può risultare fatale, come testimonia la resurrezione del Pireo in Grecia, in seguito al nonsipuotismo tarantino sull’ammodernamento del porto jonico.
La Puglia e il Sud devono fare la corsa sul Nord e sull’Europa, ma devono fare attenzione a non farsi travolgere dalla tumultuosa rimonta delle nazioni mediterranee.
Per sostenere questa doppia sfida servirebbe una classe politica che non faccia rimpiangere quelle precedenti, che già non erano, spesso, modelli di efficienza e lungimiranza. Ma, a occhio e croce, temiamo che difficilmente si arresterà la corsa verso la peggiocrazia, anche perché i cervelli migliori da anni stanno trovando opportunità e ospitalità nelle più attive capitali europee.