Il racconto

Le visite «intra moenia» secondo Don Vito

Michele Mirabella

«Più di un anno fa scrissi di Don Vito, il medico che non mi incuteva paura, non perché fossi un bambino diverso, ma perché era un medico diverso»

Puglia, il mistero dell’intra moenia». Così titola la Gazzetta di ieri un articolo (chiaro e istruttivo) di Massimiliano Scagliarini che compare in una pagina dedicata ai problemi dalla sanità. 

Il sottotitolo mi aiuta nella sintesi della faccenda affrontata: «La trasparenza negata: le Asl non forniscono i dati sui guadagni dei medici». Secondo la legge, i medici possono svolgere in ambito ospedaliero le attività private e guadagnare del denaro da dividere con l’amministrazione ospedaliera chiusa in quelle «moenia», mura, in italiano, evocate dalla denominazione della regola. L’articolo denuncia un mutismo incomprensibile da parte dell’Asl che non ci avverte dei guadagni dei medici. Ma lo Scagliarini è riuscito a documentarsi sui guadagni dentro le mura dei medici che nomina e li comunica nel suo articolo. Ne è nata una questione che s’aggiunge alla farragine delle polemiche sulla Sanità in Puglia. Ma non di questo mi voglio occupare.
A me fa un po’ ridere l’uso della parola latina «moenia», in un marasma di tecnicismi e ridicoli anglismi come solo la nostra succuba cultura burocratica può allestire. Mi fa ridere, ma mi suggerisce anche il sospetto che il burocrate abbia voluto, almeno nella memoria inconscia, rivolgere un riconoscente saluto alla nostra italica onorevole tradizione medica. Ma tutta questa burocrazia e le mene politiche delle amministrazioni complicate dal regionalismo sordido dell’ordinamento italiano, mi fanno venire malinconia nelle «moenia» della mia memoria. In quelle dell’amministrazione di oggi, i medici rischiano di far più paura dei tempi di Pinocchio. Più di un anno fa scrissi di Don Vito, il medico che non mi incuteva paura, non perché fossi un bambino diverso, ma perché era un medico diverso. Mi è tornato in mente. In famiglia lo chiamavamo «Il Dottore» o, più amichevolmente, Don Vito.
Era adatto il Don spagnolesco per quel signore burbero e pacioso, altero e gentile, severo, ma rassicurante con i pazienti durante le visite cui era chiamato nel venerando palazzetto dove nacqui e abitai per pochi, indimenticabili anni d’una infanzia fuggitiva. Don Vito non sempre diceva visite, diceva «capatine»: «Faccio una capatina dopo pranzo» garantiva a chi ne invocava l'intervento, visitandolo nella sua casa austera piena di libri e quadri che incutevano reverenza, curiosità e consapevolezza che in quelle spaziose stanze sempre in penombra abitasse il sapere.
E il Dottore arrivava puntuale, salutava, si sbarazzava del pastrano, barattava quattro chiacchiere con mio nonno, si informava su che cosa avessimo mangiato a pranzo e commentava il menu, dava notizie della sua famiglia su richiesta delle zie e, poi, incidentalmente, domandava: «Allora, che cosa è successo?». Come se il malessere, la malattia fossero compresi nel conto negli accadimenti naturali della vita quotidiana che alterna fatica a quiete, dolori a gioie, noie a piaceri che succedono, appunto. Usava un tono colloquiale e ascoltava paziente, interrompendo con domande buttate lì, con interesse, ma senza ansia, precise domande tecniche, anamnestiche, cliniche, insomma, ma che sembravano fatte per cortesia, per affabilità, giusto per far conversazione. Sembrava parlare del tempo o della stagione calda che si protraeva o del raccolto delle olive. Poi, d'improvviso, come raggiunto da un pensiero o per ricordarsi di un impegno improvviso, interrompeva il profluvio di lai e querimonie degli astanti che dicevano e spiegavano e allarmavano e bofonchiava: «Andiamo a vedere» e si dirigeva verso la stanza da letto. Don Vito conosceva le case dei suoi pazienti. La stanza era rassettata: era stato tirato fuori un copriletto buono, ricamato che profumava di lavanda, il gatto era stato allontanato sul terrazzo, sulla sedia c’era un candido asciugamano del corredo di qualche cugina appena sposata (ve n'erano sempre) e sul comò era stata posta una bacinella d'acqua tiepida. Iniziava la visita. Meticolosa. La liturgia clinica era quella attenta alla semeiotica tradizionale. Don Vito toccava, palpava, auscultava, scrutava, accarezzava, premeva, sollecitava, picchiettava. Tutto avveniva in un silenzio perfetto, al punto che si poteva sentire il ronzio di qualche mosca sopravvissuta alla caccia, in attesa della visita, fatta dalla cameriera con il meticoloso arieggiare ritmato delle persiane alternato allo sventolio di un canovaccio. Solo la pendola del salotto, incurante, suonava il suo periodico arpeggiare. Durante la esplorazione del paziente nessuno fiatava. Le zie ammiccavano tra di loro. La mamma dell'ammalato pregava, mentalmente gironzolando con lo sguardo dalle laboriose mani del medico alle immagini sacre che affollavano un altarino posto sul comodino con le fotografie ovali delle «buonanime» che neanche Don Vito era riuscito a salvare. Io, strappato il consenso a seguire la cerimonia, ricordo l’espressione del medico che alternava curiosità, lievi stupori, sfumati corrucci, sospiri. Meditazioni. Poi concludeva «rivestiti». Don Vito dava a tutti i pazienti del tu usando il nomignolo infantile di quando li aveva visitati per la prima volta. Seguiva un momento di pausa, poi si rivolgeva alla mamma del caso e sentenziava la diagnosi prodigandosi in traduzioni popolari dei nomi delle patologie in cui si imbatteva. Ringrazio Dio di non aver mai ascoltato da Don Vito una diagnosi drammatica, ma sono certo che avrebbe trovato i modi più gentili e della più generosa umanità.
A quel punto alzava leggermente le belle mani col dorso verso l'esterno e questo voleva dire che voleva lavarsi. «Mani da chirurgo» sussurrava Zia Rosina e voleva dire mani da miracoli. Don Vito camuffava dietro il suo brontolio di ritrosia una minuscola vanità. Ci si accomodava in salotto: il rituale prevedeva un caffè. Il dottore poi prescriveva il da farsi e cominciava: «Dite a Don Luigi». Era il farmacista. Un altro Don meritato.
Scritta la ricetta, il dottore sorbiva il caffè e, alle premure di quelli che, non senza imbarazzo e abbassando la voce, osavano un «Per il disturbo, Don Vito?», opponeva «Pensate alla salute». Voleva dire che la parcella sarebbe stata onesta, chiara e naturalmente pubblica. «Intra moenia artis». Era Don Vito, il Dottore. «Repetita juvant!».

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