Mentre Di Maio e Salvini litigano sulla Tav e sulla Tap, cioè sulle due più importanti opere strategiche che l’Italia ha messo in cantiere per realizzare la nuova linea ferroviaria Torino-Lione e il gasdotto transadriatico che dalla frontiera greco-turca dovrebbe sbarcare sulla costa pugliese, il ministro Savona continua a vagheggiare il suo piano da 50 miliardi di euro per investimenti e infrastrutture. C’è evidentemente un certo strabismo governativo in questa palese contrapposizione. E non solo tra i ministri interessati. Ma soprattutto tra le forze politiche che compongono l’attuale maggioranza giallo-verde. E ancor più fra le rispettive “constituency” elettorali, fra i seguaci grillini della cosiddetta “decrescita felice” e l’imprenditoria filo-leghista settentrionale.
Sapevamo fin dall’inizio che il contratto di governo sottoscritto dal M5S e dal Carroccio si fonda su un accordo di compromesso: un matrimonio d’interesse o un “do ut des” tra due formazioni politiche antagoniste che si erano presentate separate e distinte alle ultime elezioni, una delle quali addirittura in coalizione con Forza Italia sotto le insegne del centrodestra. Non si poteva immaginare francamente che i nodi sarebbero arrivati al pettine così presto e su un tema fondamentale come lo sviluppo del Paese.
A prescindere dalle valutazioni di merito sulle 13 grandi opere che il Movimento 5 Stelle vorrebbe bloccare, sulla loro opportunità e sul rapporto costi/benefici, affiora già una differente visione della politica economica e sociale che aveva trovato nei giorni scorsi i primi contrasti sulla questione dei “voucher” per il lavoro a tempo determinato, con la protesta di 600 imprenditori del nord-est contro la loro abolizione.
Il fatto è che il Movimento 5 Stelle e la Lega rappresentano “due Italie” diverse e antitetiche, unite per ora soltanto dal populismo e dalla demagogia. L’una, quella pentastellata, alternativa e anti-sistema; l’altra, quella leghista, più integrata e organica al sistema di cui pure ha fatto parte per molti anni, nelle maggioranze e nei governi di centrodestra sotto l’egida berlusconiana. Sono due elettorati molto eterogeni, il primo prevalentemente nordista e il secondo prevalentemente sudista, portatori di esigenze e interessi spesso contrapposti.
Non a caso Silvio Berlusconi ha sentenziato recentemente che i due partner “non reggeranno”. Il governo giallo-verde, secondo la sua profezia, avrebbe i mesi contati e “salterà sulla manovra economica”. Sarà in quel momento, infatti, che la tenuta della maggioranza verrà messa a dura prova sul rispetto dei vincoli di bilancio e sui rapporti con l’Unione europea. Poi, a fine anno, si concluderà il “quantitative easing” con cui Mario Draghi ha imposto alla Bce l’acquisto massiccio dei titoli di Stato e allora, quando l’Italia sarà costretta verosimilmente ad alzare i tassi d’interesse per piazzare i suoi Btp, i conti bisognerà farli direttamente con i mercati e con la speculazione.
In tutto questo generale bailamme, il ministro per gli Affari europei, Paolo Savona, già bocciato dal Quirinale come ministro dell’Economia, insiste imperterrito a rilanciare la sua proposta di utilizzare i 50 miliardi di euro l’anno che l’Italia accumula dal surplus estero fra importazioni ed esportazioni. È una somma considerevole, pari a circa il 3% del Pil: basti dire che oggi i nostri investimenti pubblici ammontano a circa 34 miliardi e che prima della crisi raggiunsero il picco di 54. Questo piano farebbe crescere il Prodotto interno lordo, in misura tale da alimentare un gettito fiscale capace di coprire le spese correnti per finanziare le promesse elettorali della Lega e del M5S: vale a dire la flat tax, il reddito di cittadinanza e la riforma della legge Fornero sulle pensioni, senza aumentare il disavanzo pubblico né il rapporto debito/Pil.
Sarebbe un “boom”, una specie di secondo “miracolo italiano”. Peccato, però, che quei soldi non si trovano nelle casse dello Stato, bensì in quelle delle imprese private che hanno aumentato le esportazioni e nelle tasche dei cittadini che hanno fatto investimenti finanziari all’estero. A meno di ipotizzare un prelievo forzoso o un esproprio collettivo, dunque, quel “tesoro” di 50 miliardi è soltanto una chimera, un’astrazione, un tentativo di gettare fumo negli occhi degli italiani.
Oppure, più probabilmente, si tratta di una provocazione diretta all’Unione europea, per cercare di forzare la mano ai burocrati di Bruxelles e ottenere l’autorizzazione a uno sforamento del rapporto deficit/Pil oltre il limite fissato del 3%. Secondo i calcoli di due accreditati economisti come Carlo Cottarelli e Giampaolo Galli, autori di un articolo pubblicato recentemente su “La Stampa”, nell’arco dell’intera legislatura il nostro Prodotto interno lordo dovrebbe aumentare di 360 miliardi per realizzare il “miracolo” e anche ammettendo che ciò avvenga gradualmente la crescita dovrebbe essere del 5-5,5% all’anno già dal 2019.
Se poi si considera che occorrerebbero almeno due anni per progettare e realizzare investimenti tanto massicci, l’incremento del Pil – secondo la teoria di Savona – dovrebbe essere concentrato in soli tre anni: il che comporterebbe tassi di crescita “cinesi”, nell’ordine del 7-8% l’anno, contro la previsione dell’Ue e del Fondo monetario internazionale che stimano il potenziale dell’economia italiana inferiore all’1% annuo.
I conti, dunque, non tornano. Non c’è purtroppo nessun “miracolo” all’orizzonte per il nostro Paese. Passeremo un’estate d’attesa e poi in autunno dovremo misurarci con la dura realtà della legge di bilancio. E con le reazioni dei partner europei e dei mercati finanziari internazionali.