Si intitola Picche Cause il disco d’esordio della ruvese Natalia Abbascià, uscito il 5 dicembre 2025 per ANGAPP: un lavoro che sceglie l’essenzialità come linguaggio, e che partendo da un'espressione che nel dialetto del paese significa «poche cose» racconta la semplicità del dialogo tra voce e violino, il doppio percorso formativo dell'artista, per costruire un universo sonoro intimo, identitario e contemporaneo.
Abbascià, qual è il senso di Picche Cause?
«È il titolo che ho dato al disco, ma anche quello di una poesia del poeta Pietro Stragapede, originario di Ruvo. È morto due anni fa, non l'ho mai conosciuto di persona, ma dopo la sua morte mi sono interessata al suo lavoro. È il mio primo disco solista, ho partecipato ad altre esperienze con varie formazioni, ed è un po’ una fotografia di quello che sono in questo periodo. La mia formazione comprende il violino classico e il canto jazz, strumenti che ho sempre portato avanti insieme, ma non c’era mai stato un punto di fusione».
Non è così comune vedere questi due mondi integrarsi. Come ha fatto?
«Ho sempre cantato da piccola, in chiesa principalmente, ma per quanto riguarda lo studio ho intrapreso quello del violino. È stato il mio maestro a consigliarmi di prendere più seriamente anche il canto, anche se all'inizio è stato un po' complicato unire il tutto. Man mano ho avuto esperienze di gruppo e ho potuto sperimentare, poi ho capito che il progetto funzionava anche da sé».
Manca dalla Puglia da 12 anni, oggi vive a Ferrara. Eppure il fatto che abbia voluto intitolare il disco con un’espressione dialettale indica che ha radici non solo linguistiche, ma anche territoriali molto forti...
«Assolutamente. È un legame profondo che ho potuto riconoscere solo quando sono andata via. Dopo un po’ di anni ci si rende conto di cosa hai lasciato, di quello che c’era, degli affetti, la cultura, l’educazione più genuina, più arrangiata con quello che si ha. Questa cosa ti spinge comunque a evolvere e a vedere la ricchezza in quello che hai».
Il suo messaggio sembra molto chiaro: tornare all’essenziale. Come vede in questo senso il panorama musicale?
«Spesso mi chiedono perché non usi l’elettronica. A parte che magari è un mio limite, mettermi a studiare adesso un altro strumento per me sarebbe troppo. Con il violino ci ho messo vent’anni! Io mi sono esposta con questo esperimento di violino e voce e ho detto: "Vediamo che cosa succede”. Il feedback del pubblico è stato sempre positivo, quindi forse non è così allucinante. Poi progetti futuri, ovviamente, ce ne sono. Vedremo come andrà il prossimo anno».















