Chi ha familiarità con il mondo del rap non può non conoscere il nome di Ciro Buccolieri: salentino doc., classe '84, nato a Manduria, da anni vive a Milano dove ha fondato - insieme a Shablo (maestro concertatore della Notte della Taranta 2024) e Mario D'Angelantonio - Thaurus, la label musicale più influente della scena urban (basta citare alcuni dei nomi del roster: Guè, Ernia, Sfera Ebbasta, Rkomi, Kid Yugi, Noyz Narcos e molti altri), nonché agenzia di management, booking e publishing. Visionario e lungimirante, appassionato e straordinario conoscitore di tutta la cultura che ruota intorno al rap, Ciro ha regalato alla Gazzetta una lunga chiacchierata, permettendo di inquadrare dall’interno il panorama di questa scena, senza dubbio la più forte del momento.
Dalla Puglia a Milano, fino ai vertici del business discografico: come inizia il suo percorso?
«È stato tutto self-made. Ho vissuto a Manduria fino ai 17 anni, poi quando mi sono spostato a Milano - ma ho frequentato anche Bologna e Roma - mi ero già avvicinato alla musica black, ogni volta che andavo a vedere esibirsi un artista americano mi accorgevo che eravamo sempre i soliti quattro gatti nel pubblico, non è stato difficile riconoscerci e unire le forze. Intanto YouTube ha cambiato tutto, ha dato un volto a chi faceva musica. A quell'epoca gli anticipi erano molto piccoli, le percentuali minime, il vero business erano i live, ma negli anni '10 chi firmava con le multinazionali portava a casa tour catastrofici, insostenibili, costavano troppo. Quando io, Shablo e Mario abbiamo deciso di provare a costruire qualcosa di nostro, l'obiettivo era consentire agli artisti di vivere di questo lavoro. Ecco perché Thaurus si impegna ancora oggi nello sviluppo sinergico: non solo etichetta, ma anche management, promozione...».
È impegnativa quest'ottica a 360 gradi, qual è il valore aggiunto?
«La visione d'insieme, la "bigger picture", fa la differenza tra chi esplode con un brano di successo e chi costruisce una carriera solida. In questa stagione resiste al tempo solo ciò che ha le fondamenta salde. Questo gioco è una maratona, non sono i 100 metri, conta quanto è valida la musica che fai. È facile andare virali su TikTok, può riuscirci chiunque, ma oggi vince ancora la qualità, chi crea un legame con il pubblico».
Qual è il vostro approccio nel seguire il percorso di un esordiente?
«Cerchiamo sempre di partire dalle sue inclinazioni. È la sua vita, non la mia, è lui che magari ha cominciato a scrivere dalla cameretta. Facciamo in modo che lavori in maniera serena, provando a guidarlo ma solo perché a volte la percezione delle cose si vede meglio dall'esterno. Ci concentriamo sul raggiungimento di un obiettivo, partire da un punto A per arrivare a un punto B, e nel frattempo allargare il pubblico quanto più possibile».
Rispetto all'estero oggi come inquadra la situazione in Italia?
«Ho sempre creduto che il rap sarebbe diventato così rilevante perché c'è tutto un mondo dietro, poi l'idea può partire anche senza budget, bastano un foglio e una penna. Qui da noi c'è tanta varietà, è ovvio che negli Stati Uniti sono avanti anni luce, hanno tante nicchie underground, si può vivere di musica in maniera dignitosa. In Italia devi essere rilevante a livello mainstream, anche se diversi artisti stanno riuscendo a ritagliarsi il loro spazio. Il pubblico ora è meno integralista di noi, che ascoltavamo un genere e basta: oggi siamo pieni di commistioni, cadono confini e barriere, nascono collaborazioni sulla carta azzardate, che poi funzionano alla grande. Però mi piace che ci sia un'identità come denominatore comune per la gente che si approccia alla musica urban. In fondo ha influenzato tutto ciò che ci circonda oggi: il pop con le sue rime e la sua metrica assorbite dal rap, il linguaggio, la moda...».
Negli ultimi anni è cresciuta la figura del producer, nel nostro Paese abbiamo esempi di grande talento. Quanto conta questa evoluzione?
«La produzione è un punto cardine, perché una canzone è fatta di testo e musica in proporzione, ma su cosa scrivi quelle parole fa davvero la differenza. Pensiamo a chi è partito dalla strumentale, nomi come Morricone e Moroder hanno cambiato il mondo, sono riusciti a commuovere ed emozionare senza dire una parola. Nel rap, ma anche nel pop, un bravo produttore cambia la veste al brano. Conosciamo canzoni leggendarie, ma non chi le ha prodotte, sono felice che oggi possano avere un po' di luce in più».
Estate 2024: la scena urban - e non solo - è dominata dalle donne, pensiamo a Rose Villain, Anna e tante altre. Era ora che arrivasse questo momento?
«Finalmente! Posso dire che sono davvero contento, non solo perché molte di queste donne sono mie care amiche, non solo perché sono cresciuto da fan de La Pina, che forse i più giovani non sanno che ha esordito come rapper. Sono contento perché queste donne forti ne ispireranno tante altre nel futuro. Se tu non hai un modello di riferimento, sei costretto a inventartelo. Io attingevo dall'estero, ma ho dovuto imparare a selezionare, perché in certi ambienti la gente ha fatto una fine orrenda. Sapere che oggi ci sono queste donne di talento, decise, capaci, intelligenti, mi tranquillizza. Mi fa sperare».
Quanto contano i numeri?
«Per noi che siamo stati considerati per tanti anni un genere di "serie C", i dischi d'oro e di platino contano. C'è stato un lungo periodo storico in cui i contenuti venivano decisi a tavolino da chi deteneva i contenitori. Oggi il concetto si è ribaltato, il contenuto è tutto. Uno show come "Nuova Scena" su Netflix, anni fa sarebbe stato un azzardo. A volte questo nostro "ostentare" le certificazioni è un modo per dire: ce l'abbiamo fatta, sta funzionando. Determinano quanto arrivi al pubblico, il risvolto economico. Però i numeri vanno saputi leggere, e spesso chi li comunica non lo fa con totale trasparenza. Ci sono dischi che non hanno avuto successo commerciale ma hanno cambiato le persone. Quello è un valore inestimabile».
Ma questo suo amore per la musica da dove arriva?
«Ho chiaro in mente un momento preciso: ero appena adolescente e amici più grandi mi portarono al Velodromo degli Ulivi, Monteroni di Lecce, per il festival Gusto Dopa al Sole. Rimasi estasiato vedendo la gente che ballava, dipingeva, faceva freestyle, fu un colpo di fulmine. Poi amici che venivano in Puglia per l’estate cominciarono a portarmi cassette di rap francese e americano, riviste che non si trovavano in Italia, abbiamo iniziato a organizzare piccoli eventi, jam session con le assi di legno in piazza. Mi sembrava che quella musica parlasse delle nostre vite, mia e dei miei amici, in fondo le periferie dei mondi hanno tutte tratti in comune. E c'era un riflesso anche sul piano estetico: avevo un negozio di abbigliamento streetwear, andavamo a Zurigo o negli Stati Uniti con le valigie vuote e tornavamo con i vestiti, mi piacevano le magliette con i loghi delle label, sono rimasto affascinato da quel mondo "dietro le quinte", imprenditori che non dovevano necessariamente uniformarsi. Era molto simile al mio modo di intendere la vita».
Riassumendo tutto, qual è la cosa di cui oggi è più orgoglioso?
«Per carattere non mi sento mai appagato, non sono uno che si compiace. Sono sicuramente felice che abbia vinto e stia vincendo tutto il movimento. Siamo partiti tanti anni fa come gruppo di ragazzi che avevano una visione, c'è stato dietro lavoro, impegno e sacrificio. La scena sta vivendo un momento felice dal punto di vista discografico e di live, ci stiamo prendendo gli stadi, i vertici delle classifiche. Ma abbiamo capito che non si fanno numeri senza qualità, e questi risultati attestano il fatto che abbiamo piantato radici solide».