La panchina
Un cuore che batte tra le onde del mattino
Come una percussione che si avvicina e si allontana e che nasce e si trasforma e torna all’origine pompando sangue
Nel silenzio ondivago del mattino, il signor Acciuga se ne sta in attesa. Non sa bene di cosa in particolare; sa solo che in quel silenzio, insieme promessa e sottrazione, dev’esserci un solco anche piccolo che a saperlo individuare potrebbe diventare una strada.
Sulla sua panchina ha steso squame e pinne ad asciugare; il resto del suo corpo è magrezza sinuosa fatta di visceri e pelle, di cuore di polmoni di fegato e di un intestino che si avvolge a spirale e non sai mai dove cominci e dove finisca.
Ogni suo organo viene da qualcun altro; da qualcun altro che lo ha abbandonato o che lo ha perso o che rischiava di finire nella pattumiera di una sala operatoria.
Il signor Acciuga in origine sarà stato qualcosa di simile ad un anfiosso, la più semplice delle creature, una miniatura amante della sabbiosità dei fondali marini, una lunga virgola iridescente.
Con il tempo e le avventure, con gli incontri e i battesimi, ma anche con le battaglie e le perdite, di volta in volta è riuscito a dotarsi di altri organi facendo trapianti artigianali e munuziosi.
L’ultimo organo ad essere stato sostituito è stato il cuore; ne ha un ricordo che si mescola ad altri, perché un cuore nuovo lo ha inseguito per un tempo che non saprebbe misurare con il ticchettio degli orologi e che invece andrebbe collocato su una partitura fatta di battiti non sempre uguali e non mancanti di exstrasistole e tempi dispari. Il cuore del signor Acciuga viene dal petto di un bambino che lo ha lasciato volare fuori di sé perché ne aveva anche un altro e in ogni caso viveva di distrazioni oniriche e sublunari che gli consentivano acquisti e perdite senza troppo soffrire.
Forse più che un bambino si sarà trattato in un putto o di un amorino, un essere aereo pronto al gioco e allo scambio, con una collezione di dardi messa a sonnecchiare negli angoli di un oratorio o di un edificio senza tetto abitato da un albero svettante e capace di dialoghi frondosi con il cielo.
Anche adesso il cuore del signor Acciuga lo si vede in trasparenza battere nel suo petto, un uccellino cremisi che batte le ali in una gabbia.
A saperci prestare attenzione se ne avverte il suo suono nel silenzio del mattino, come una percussione che si avvicina e si allontana e che nasce e si trasforma e torna all’origine pompando sangue che fa il giro parabolico del corpo trasportando pensieri sogni e svagamenti.
In questi momenti di sosta e di abbandono, dove lo smembramento di sé è preludio a nuove avventure, il signor Acciuga si perlustra come fosse un altro; allo stesso tempo smemorato e attentissimo fa i conti con la cenere che il tempo fa di lui e con i trabocchetti avvenuti a sua insaputa ma sempre dentro il perimetro del suo corpo.
In realtà avere caratteristiche anfibie gli consente di possedere tempi biologici misti, dove passato e presente si mescolano come le acque di un fiume che sgorga in mare aperto.
Nel silenzio ondivago del mattino fa inventario di se stesso, sapendo bene di non appartenere a nessuno neanche ai suoi organi, perché non è la loro somma a fare il suo corpo; e perché il suo corpo non è solo un corpo.
Cosa sia di preciso non saprebbe dirlo; ma sente che nelle sue origini e nei suoi futuri molto dipende da virgole messe nel punto giusto; da sospiri fatti in tempo; da rivolgimenti di sguardi che d’improvviso fanno di un solco una strada.
È nell’andare il suo destino; e il suo destino è una destinazione dove i bivi sono come gli scambi ferroviari e bisogna ogni volta sapere manovrare gli strumenti d’orientamento per non smarrirsi.
Sulla panchina le squame e le pinne sono già bell’asciutte e sarebbero pronte per essere indossate e per fare la loro parte scivolosa e ambigua; ma il signor Acciuga ha bisogno ancora di tempo e di sospensione e di attesa.
Cosa attenda non saprebbe dire di preciso. Ma sa che finché il sentimento dell’attesa lo visiterà e lo terrà sul chivalà le sue avventure non saranno finite.
Magrissimo, con il naso profilato nel vuoto dell’intorno, il signor Acciuga annusa l’aria, ne imbeve i suoi polmoni, presi chissà dove e forse uno a uno e da lui uniti in un solo respiro.