La panchina
Quanto vale la firma di un «patto ignoto»
La panchina ha la forma di un divanetto; è al centro di una stanza illuminata da un sole tardo mattutino; dalla finestre si fa visibile una piazza irregolare, schiacciata da un lato, svettante di un edificio d’epoca fascista dal lato opposto
La panchina ha la forma di un divanetto; è al centro di una stanza illuminata da un sole tardo mattutino; dalla finestre si fa visibile una piazza irregolare, schiacciata da un lato, svettante di un edificio d’epoca fascista dal lato opposto.
Al centro della stanza c’è un tavolo sgombro d’oggetti e di tovagliati; solo due foglietti vi sono poggiati, uno sull’altro, come se il primo nascondesse l’altro, come se l’altro avesse bisogno di tempo per emergere e per diventare dirompente.
Il signor Acciuga, seduto di sguincio sulla panchina-divanetto, guarda il suo interlocutore; pennella lo sguardo sull’insieme del suo viso, soprattutto sugli occhi che hanno qualcosa di orientale; e sulle labbra che sono fatte per dire cose complicate e perdercisi.
Si tratta di un uomo di legge; difficile dire se avvocato o magistrato o giudice o altro ancora; forse lo si potrebbe definire un azzeccagarbugli che s’ingarbuglia, intrappolato nelle sue formule, torturato da una malinconia che lo spingerebbe chissàdove e che lui nasconde tra i capelli, che sono tirati all’indietro e se ne stanno come in attesa di una notizia che non arriva mai, di una notizia-godot.
Avrà un nome quest’individuo, si chiede il signor Acciuga; ma se c’è l’ha di certo non è quello scritto sulla targhetta d’ottone che luccica fuori dalla porta: sarà un nome infilato dentro il nome professionale; un nome dimenticato tra le curve paraboliche dell’infanzia.
In effetti, l’avvocato magistrato giudice o altro ancora, a ben guardarlo, appare come un bambino travestito d’adulto; ha una maglietta arancione che starebbe bene anche a un neonato; e ai piedi delle scarpe che galleggiano nell’aria senza mai toccare l’impiantito, che è di un marmo massiccio un po’ scuro con qualche virgola chiara verso gli angoli, non lontano dalla finestra che se ne sta chiusa anche se il caldo impera nella stanza e imperla le fronti dei due interlocutori.
Il signor Acciuga ascolta l’eloquio del bambino-adulto: è composto di frasi a volteggio; una principale che non giunge mai alla fine e un grappolo di secondarie che fanno fatica a tenersi in equilibrio sulle labbra.
Le mani dell’avvocato – adesso sembra essere entrato in questo ruolo – stropicciano i due foglietti, che sono bianchi o appaiono tali e che nascondono formule fatte apposta per chiedersi: ma cosa significano?
Il signor Acciuga lo chiede: cosa significano; e l’avvocato lo guarda sorridendo e dice: sono formule che a noi uomini di legge piace usare; sono le nostre eleganze.
È un modo per dire che in queste eleganze si cela il vero succo del loro incontro; e il vero succo è nel secondo foglietto che sguscerà fuori a tempo debito e sul quale Acciuga dovrà apporre una firma.
Siamo arrivati al punto: si tratta di una contrattazione tra un assente, che è rappresentato dal bambino che è anche un uomo di legge, e da un presente, che è un essere anfibio e non crede che la sua firma possa aver un valore; non lo crede perché sa che una volta messa in fondo al foglio la sua firma si metterà a nuotare facendo surf tra le frasi, un surf fatto di braccia e ancor più di pinne iridescenti e un po’, ma solo un po’, doloranti.
Cosa i due stiano contrattando resterà un mistero; ma certo un qualcosa di preciso dovrà emergere dal secondo foglietto, una cifra da pagare in un dato momento o un impegno da rispettare un certo giovedì dopo le cinque.
Che si tratti delle cinque di mattina o di pomeriggio Acciuga lo capirà strada facendo; per adesso ciò che più gli sta a cuore è questo suo usar le dita per tenere in obliquo la penna offertagli dall’avvocato-bambino e il circoscrivere bene lo spazio dove collocare con rapidità ed efficacia nome e cognome.
La piazza laggiù dietro ai vetri è attraversata da passanti ignari; dalla panchina-divanetto di Acciuga sembrano dei sopravvissuti a un’insensatezza che si staglia nell’aria come un fumetto incomprensibile.
Nessuno che alzi gli occhi per uscire dal circolo angusto di se stesso. Nessuno che sia in grado di cogliere il momento esatto in cui Acciuga firma e i denti dell’avvocato stridono come unghia sul vetro.
Il patto ignoto è siglato.