La Panchina

Lugano, sul lungolago tra cigni e bambini

Silvio Perrella

L’atmosfera rarefatta stimola le riflessioni sull’amicizia, sulla gentilezza e sugli automatismi del nostro corpo

Sul lungolago di Lugano le panchine sono tutte rosse; e sono tante; e seguono l’andamento curvo della massa acquea, che sciaborda, si ritira, si avventura verso il largo solcata da cigni bianchissimi che quando tornano sulla terraferma e passeggiano tra le panchine mostrano pinne nerissime.
Il signor Acciuga scorge in loro una certa familiarità; quel loro camminare così clownesco; il collo lungo e ricurvo che gli permette di cercare con il becco arancione luoghi del corpo che sembrerebbe remoti e pulirseli; gli occhi che emergono da un’isola nerastra come le pinne e che non sai mai bene cosa guardino e se guardino.
Cosa guardino e cosa guardino i cigni di Lugano se lo chiede anche il bambino che è seduto accanto al signor Acciuga.
Avrà tra i nove e i dieci anni; sembra sorridere, ma in realtà ha una fila di denti che si abbassa sul labbro inferiore come una saracinesca bianca; e questo dà al suo viso un che di stralunato e insieme di ricerca; come se avere quasi sempre i denti scoperti concentrasse la luce dell’intorno sulla sua bocca e si producesse un’attesa, l’attesa di un eloquio che però non viene quasi mai, perché il bambino ama perlopiù starsene in silenzio; cosa che lo fatto amico del signor Acciuga.
Entrambi esseri inclassificabili, si sono dati appuntamento proprio su questa panchina rossa innanzitutto perché ha dietro di sé un possente cedro del libano che si erge solitario a dividere in due la strada percorsa dalle automobili.
È un albero così autorevole che avrà suscitato in chi avrebbe potuto abbatterlo per fare spazio percorribile ed urbano un tale timore da lasciarlo lì al suo posto a produrre rami nuovi e a slanciarsi con sempre maggiore convinzione verso il cielo, verso l’azzurro che sta in alto e che difficilmente scende tra i pennuti, gli anfibi e i bambini.
Però tutte queste creature sanno, e ancor prima di sapere sentono, che il lavoro dell’albero fa famiglia con la loro esistenza, perché anche l’albero così diverso dagli altri alberi del lungolago e così solitario, è un esemplare che sfugge alle regole stringenti della classificazione.
In effetti potrebbe essere davvero un cedro del libano, ma se ci si mettesse a guardarlo con maggiore attenzione chissà che non si scoprirebbe una sua natura ibrida che recalcitra al nome esatto e carcerario e che sospinge la lingua a dire, come fanno Acciuga e il bambino: è lui, è il nostro amico con i rami che sta dietro di noi e ci protegge.
Il bambino osserva i cigni con attenzione perché anche lui, quando vuole toccarsi una parte del corpo, deve fare un balletto di braccia articolato e complesso.
Ha infatti braccia lunghe che terminano con mani che si piegano all’interno in un modo che rende difficile la prensilità.
Quando il bambino vuol toccarsi la fronte, per esempio, deve piegare le sue braccia in modo tale che le mani s’innalzino e che planino sulla sua fronte quasi come il becco dei cigni.
Solo che il movimento delle braccia del bambino non sempre dà il risultato sperato, come se le sue braccia appartenessero a un altro corpo e dovessero prendere atto solo pian piano di esser guidate dalla mente del bambino.
Acciuga sa bene quanti sforzi ogni volta il suo amico debba fare per raggiungere un benché minimo risultato; eppure sente che mai in lui viene dismessa la gentilezza, sia verso se stesso sia verso gli altri e in particolar modo verso il signor Acciuga.
Cosa significhi essere bambini, cosa significhi dovere dipendere dai grandi, cosa comporti possedere degli occhi che stanno formandosi uno sguardo sono domande che appassionano il signor Acciuga.
Il viavai delle persone sul lungolago di Lugano sembra ignaro di quel che avviene sulla panchina che ha dietro un albero maestoso e dove si fermano i cigni dopo aver fatto il bagno e dove il bambino e il signor Acciuga stanno sperimentando modi silenziosi di starsi vicini, di darsi aiuto reciproco, di scambiarsi gesti e sguardi, di possedere in silenzio la possibilità dell’amicizia.
Prima d’immergersi nel lago e di tornare ai suoi viaggi, il signor Acciuga prende nota con gli occhi del sorriso a denti aperti di Saturnino.
È così che lo ha battezzato nel suo cuore.

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