Diario di classe
Se fa notizia il rifiuto dell'indifferenza
«Insegno da anni in un liceo di provincia che mi ha fatto capire il significato della parola resilienza, quella capace di farti resistere al richiamo delle scuole che contano, per le storie e per le facce che abitano le nostre aule variopinte, in cui si costruisce e persegue ancora la rivalsa ed il riscatto sociale»
Insegno da anni in un liceo di provincia che mi ha fatto capire il significato della parola resilienza, quella capace di farti resistere al richiamo delle scuole che contano, per le storie e per le facce che abitano le nostre aule variopinte, in cui si costruisce e persegue ancora la rivalsa ed il riscatto sociale. Qui, mossi forse dall’illusione di poter fare la differenza, in un tempo in cui ci si avverte tutti come pedine del gioco dell’oca in cui si torna sempre al punto di partenza, come se il destino fosse già scritto in culla.
E allora, nel tempo del sapere in tasca e all’occorrenza, in cui basta un click per accedere ad un tutorial capace di risposte ad ogni tuo quesito, essere qui mi fa credere che invece le nostre parole, quelle tra noi e loro, contino ancora qualcosa.
Quando ho appreso la notizia dell’insegnante torinese in fila accanto alla sua studentessa in attesa per rinnovare il permesso di soggiorno, senza il quale non avrebbe avuto accesso all’esame di maturità, ho provato un senso di vicinanza e al contempo di incomprensibile sorpresa per il clamore.
Perché fa clamore partecipare alla fatica della vita degli altri, assuefatti come siamo all’indifferenza e alla disumanità. La normalità che diventa eccezione. La normalità è restare inermi, seduti sui nostri comodi divani ad assistere come spettatori agli orrori da cui ormai siamo circondati, senza provare nessun senso di ribellione, nessuno moto di rabbia. Le nostre società divenute distopiche non contemplano alcuna partecipazione emotiva e noi dimostriamo di aver compreso bene la lezione.
I nostri sguardi si sono abituati a guardare tutto con il necessario, salvifico distacco: bambini naufraghi e giunti morti sulle nostre coste, la fila degli ultimi ammanettati e portati con orgoglio patriottico altrove, purché lontani dalle nostre case, uomini divenuti fantasmi, ammalati della fatica del vivere e del fentanyl. Ultimi, senza possibilità di riscatto.
Persino le parole come deportazione, non sono più capaci di sortire un naturale senso di allarme. Tutto immolato all’illusione di costruire città sicure, fantomatiche ed irrealistiche. Perché ci sarà sempre tempo per costruire un nemico da combattere, rendere estraneo o diverso.
Cosa ha a che fare la scuola con tutto questo?
Molto. Spronare i ragazzi a guardare la realtà con senso critico, divenire in grado di decodificarla, crescere come cittadini consapevoli e non pedine di un sistema è un processo che necessità di conoscenza e di istruzione.
La scorsa settimana a scuola abbiamo visto il film: Lui è tornato, realizzato nel 2015 dal regista Wnendt, tratto dal romanzo di Timur Vermes, che immagina il ritorno di lui, del Führer, in una società incapace di comprendere che quell’uomo che parla come Hitler, che si veste come lui e che sembra capace di imitarlo perfettamente non è una finzione, nè una figura grottesca, ma colui che instilla di nuovo e come un veleno preso a piccole dosi, il suo pensiero. La memoria è ciò che è capace di divenire l’antidoto.
E noi? Avremo all’occorrenza l’antidoto necessario per comprendere verso quale direzione stiamo andando?