Diario di classe
La morte di Aurora e i sintomi inascoltati
Cosa può fare la scuola? Quali linguaggi e quale forma educativa di fronte alle tragedie cui assistiamo quotidianamente
Adda passà a nuttata. È la celebre frase di Eduardo de Filippo, nella sua Napoli Millenaria, ma la notte nella quale siamo oggi fermi e in attesa, sembra non passare mai.
Una notte buia e profonda senza luce.
Tra qualche giorno, come ogni anno, parteciperemo nelle scuole, per le strade, nelle piazze ad incontri e presidi di donne per commemorare insieme la giornata contro l’ Eliminazione della Violenza contro le Donne, istituita dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel lontano 1999.
Eppure non passa giorno, che la cronaca non ci racconti storie di donne uccise barbaramente da uomini irrisolti, narcisisti e fragili. Incapaci di accettare un rifiuto, la fine di una storia o il sacrosanto desiderio di indipendenza, che tanto fa ancora paura.
Uomini intimoriti dall’ingovernabilità di donne libere, consapevoli e pensanti.
Aurora aveva 13 anni, è stata uccisa per mano del suo fidanzato- bambino, gettata come un rifiuto dall’ottavo piano del palazzo in cui abitava.
E mai, come adesso, per quanto io possa ricordare, le storie d’amore - solo all’apparenza- dei nostri figli, si trasformano sempre più spesso nell’incipit di una trama da film horror di cui noi restiamo spettatori.
La scuola è da sempre chiamata in causa, ma diciamocelo, non c’è lezione di educazione civica che tenga, se ciò di cui parliamo in classe non è accompagnato a casa da padri capaci di essere esempi virtuosi nel rapporto tra uomo e donna.
Uomini da emulare, di questo hanno bisogno i nostri figli.
Eppure questi uomini risultano, a mio avviso, ancora i veri assenti di una narrazione che sembra coinvolgere solo l’universo femminile, come se fosse una «roba» di cui occuparci tra donne, parlare tra mamme, per effetto di una anacronistica convinzione che l’educazione, anche quella sentimentale, sia nostro esclusivo appannaggio.
Noi tutte reduci di una cultura patriarcale di cui ancora arde la brace.
Non si può negare che i nostri figli siano spesso il risultato di complesse dinamiche familiari, di maschi incapaci di divenire uomini, che hanno custodito il recondito desiderio di conservare la proprietà sull’altro e dunque di disconoscerne la libertà.
Ci sono ancora troppi maschi carcerieri e madri silenti, donne che hanno barattato la propria libertà in cambio di quello che fingono di chiamare amore.
Che fare?
Scegliere di accontentarci di indossare le scarpette rosse o di annodare al polso nastrini rossi in segno di memoria o ribellione, anche alla prossima manifestazione, oppure agire attraverso la cocciuta volontà di insegnare loro un’altra lingua che è quella dell’amore, che non può essere il risultato né di coercizione, né di tirannia.
Ciò a cui assistiamo sono gli epiloghi di storie iniziate come tutte le altre, ma di cui abbiamo tollerato parole sbagliate o violente, ignorato i primi sintomi, sminuito gli albori.
Restiamo in allerta.