Diario di classe
Luca, la mascherina e un'occasione persa
Lui mi guarda con gli occhi di chi sa che è inutile usare le parole, se poi non sanno essere ascoltate
Stamattina mentre tornavo a casa dopo la scuola, ancora pensavo a Luca. Luca quest’anno è seduto all’ultimo banco, è l’unico che in classe indossa ancora la mascherina. Mi chiedo se per proteggersi dal covid o dal mondo.
Non è mai stato un ragazzo loquace, parla solo se necessario, o forse solo se davvero interessato, questo è quanto ho capito.
È alto e magro e indossa buffi occhiali tondi, ed il suo modo di camminare e di muoversi, mi ricorda i personaggi di alcuni vecchi film di animazione di Hanna e Barbera.
Lo scorso anno, mi è arrivata tra le tante mail che giungono a noi insegnanti ogni giorno, la proposta per la partecipazione degli alunni ad un concorso, che aveva come tema il racconto di sé, anzi meglio di se stessi e del proprio rapporto con gli altri.
La proposta mi è sembrata subito allettante, ho immaginato sarebbe stato un esercizio virtuoso per raccontarsi, che è cosa sempre più rara persino a scuola.
Ma la classe è rimasta in silenzio, nessun entusiasmo e nessun desiderio di mettersi in gioco.
Io ho terminato di compilare il registro, ho salutato, ho chiuso la porta, delusa.
Qualche giorno più tardi Luca mi scrive: «Prof. ci ho ripensato. Vorrei provarci. Ho deciso di partecipare al concorso».
Ne sono stata felice e sono rimasta in attesa.
Il giorno prima della scadenza del concorso, Luca mi invia una mail, con un lungo testo.
L’ho letto e riletto più volte, e poi ancora, sorpresa, ma neanche troppo, di certo colpita per quanto trovato in quelle parole.
Era un testo scritto in un italiano antico, trecentesco, che imita la lingua del Petrarca.
Un testo difficile da decifrare che ha richiesto tempo, come quello che Luca avrà speso, per ricercare ogni parola, e per darne ad ognuna il giusto valore.
Ne appariva il ritratto di un ragazzo complesso - ma questo già lo sapevo - che aveva stratificato nel tempo i pensieri e che aveva provato a sbrogliarli, come poteva, con i suoi 17 anni.
Io ho inviato il testo, con un moto di orgoglio, se avessi potuto avrei aggiunto un preambolo: «...ecco a voi Luca, è un mio studente, di questo testo che trasuda verità, fatene buon uso!».
I mesi sono passati e all’inizio del nuovo anno, gli esiti sono stati finalmente pubblicati.
Luca non era tra i premiati, nessuna menzione speciale, neanche un rigo.
Ho riletto più volte l’elenco con i nomi degli alunni, pensando di aver omesso qualcosa, ma poi ho capito - l’avevo già capito - il testo di Luca era troppo, troppo perchè richiedeva tempo, e noi lo sappiamo bene, gli adulti non hanno tempo.
Stiamo allenando i nostri ragazzi, e prima ancora noi, ad una velocità che rischia di farci perdere di vista il necessario, l’importante.
Ci stiamo convincendo che ciò che serve sia una scuola fast, da somministrare a piccole dosi: pochi i contenuti, stringati, senza orpelli, senza date da ricordare, se non quelle poche necessarie. Un tot di conoscenza sull’argomento e q.b. per decifrare ciò di cui si sta parlando. Nessuna digressione, parole poche, contate una ad una, come quelle usate nelle chat dei social.
Ci siamo lasciati convincere che saper rispondere vero o falso alle domande, potesse essere il modo migliore per valutare ciò che avessero compreso.
Come se un metodo unitario, una griglia di valutazione, fosse la cartina al tornasole sufficiente, per una moltitudine di ragazzi, diversi per intelligenza, provenienza, conoscenza e sensibilità.
Sì o no, vero o falso, divenuti tutti concorrenti di quiz a premi, con un montepremi assai alto: l’ingresso all’università, fuori o dentro dalle graduatorie di un concorso, fuori o dentro la vita che volevi.
Qualcuno ha creduto che fosse necessario adeguarci ad un altro modello di scuola, quella che viene da lontano. È sembrato necessario - necessario per imitazione - prosciugarla questa scuola dal superfluo. Come se davvero si trattasse di superfluo.
Io resto la sua insegnante e lo guardo con lo stesso sguardo orgoglioso che ho sempre avuto, ma con la consapevoleza di aver perso un’occassione.
Lui mi guarda, non so con quali occhi, non sono stata in grado di comprenderlo, forse di chi sa, che è inutile usare le parole, se poi non sanno essere ascoltate.