Diario di classe
La bellezza di Daniel nel suo sguardo fiero
Pensavo agli anni di studio, alla formazione, mentre ero lì a sedare risse, a minacciare note, a pregare perché non si facessero troppo male, mentre saltavano sui banchi di scuola
Questa mattina ero in macchina per raggiungere la scuola, e ho ripensato alle mattine di qualche anno fa. Come tutti noi, all’inizio ho peregrinato di scuola in scuola. Quello degli insegnanti è un popolo errante. Avevo avuto la fortuna di essere stata assegnata in una piccola scuola di periferia - pensavo -. Sono arrivata inconsapevole e assai sprovveduta. Provvista soltanto delle nozioni apprese sui libri di scuola, del tutto insufficienti.
Guidavo e piangevo. Andata e ritorno. Pensavo agli anni di studio, alla formazione, mentre ero lì a sedare risse, a minacciare note, a pregare perché non si facessero troppo male, mentre saltavano sui banchi di scuola.
E questo stava accadendo a me, a me che ero stata formata per raccontare la bellezza. Era una scuola svuotata, quella trovata, una scuola già vinta. Una scuola rassegnata, già persa in partenza. Una scuola senza mezzi, senza pc, senza fogli, senza progetti. Io guidavo, piangevo, fumavo, e come faccio sempre annotavo le parole in questo diario immaginario, di cui avevo già il titolo: «Storia di una 40enne (quasi) che non ce l'ha fatta». Mi era venuta in mente, ascoltando una rubrica del tg, in cui giovani adulti brillanti raccontavano le loro storie di successo, mentre prendevano forma i progetti immaginati sui banchi di scuola.
Era evidente, mi era toccata una sorte diversa. Eppure immaginavo già il titolo in grassetto in copertina, sarebbe potuto diventare un best-seller. Avrei iniziato raccontando del mio primo giorno, quando i colleghi provarono ad incasellare uno ad uno gli alunni di ogni classe che mi era stata assegnata. Noi eravamo fermi sulla soglia della porta. Poche le parole, efficaci i gesti: una mano aperta sul viso, qualche vigoroso schiaffetto nella piega del braccio sinistro, per indicare dolori e provenienze. A quel racconto sintetico non c’era molto altro da aggiungere.
La bellezza, dunque, quella di cui avrei dovuto parlare loro, mentre si sfidavano, imprecavano l’uno con l’altro, senza mostrare alcun interesse per il resto. In quella scuola mi sono sentita straniera, a volte spettatrice, spesso intrusa. Mi provocava disagio, una sorta di disagio fisico che avvertivo tra il petto e lo stomaco. Nulla a cui appellarsi, nessuna bellezza nelle aule, nessuna bellezza nei corridoi spogli, nessuna bellezza fuori. Che ci faccio io qui? Era il mio pensiero ricorrente, il mio pensiero fisso. Ma nessuna scuola può mai essere un deserto assoluto. Tra questi banchi ho conosciuto Daniel, un ragazzo dai lineamenti fini, ed uno sguardo fiero che ha imparato a fingere di essere duro. Papà in carcere, fratello pure, conosce solo l’alfabeto della strada, ed è arrabbiato Daniel. È arrabbiato con la scuola, con i compagni di classe, con me, con la sorte, con la vita. Come parlare di bellezza, a chi la bellezza non l’ha conosciuta? Daniel l’ho lasciato un anno dopo.
Avevo però smesso da tempo di piangere lungo il percorso che mi legava a loro, Ero divenuta consapevole. I ragazzi avevano smesso di saltare sui banchi e conoscevano il mio nome. Daniel mi parlava. Non abbiamo mai avuto modo di parlare della storia dell’arte, avrei dovuto raccontare loro delle opere di Caravaggio, delle sue tele, del suo linguaggio, della luce, ma in compenso ho tanto capito delle ombre e della vita. E forse mai come in quelle settimane, in quei lunghi mesi, ho compreso l’esigenza di chi sceglie di rappresentare la verità, come faceva Michelangelo Merisi. A Daniel ci penso spesso. Penso a quel ragazzino di 16 anni, penso ai suoi occhi. Chissà se Daniel ha avuto la forza di andare a cercarla, questa bellezza, altrove.