Lessico meridionale

Quel mio esame di Maturità da privatista a Gioia del Colle

Giovanni Panza

Ricordo il tema di Italiano, e altro che cellulari in classe...

Ho sostenuto gli esami di maturità presso il Liceo Classico “Virgilio” di Gioia del Colle. Troppi anni fa. Vi fui destinato d’autorità stante la mia condizione di privatista.

Molti conoscono che cosa fosse quella condizione limbica: studenti che s’erano preparati lontano dalle aule scolastiche, privatamente, appunto. Studenti che avevano sciolto il legame con l’ordinamento della scuola: molti lo ritenevano penitenziale e prendevano la strada avventuriera dell’esame da privatista. Costui non era visto di buon occhio, anzi: v’era verso di lui un non so che di vigilanza soverchia, d’attenzione curiosa, di sospetto. Era un legionario straniero che aveva anticipato l’uscita dal fortino, mettendosi in viaggio senza il viatico rassicurante dell’istituzione scolastica, sciogliendosi dall’onere diligente della frequenza noiosissima e studiando da solo o appena assecondato da lezioni private. Queste che furono e, forse, ancora sono, provvidenziali integrazioni salariali per i professori maltrattati dall’esosità dello Stato ignaro della benemerita categoria, erano considerate dalle commissioni con malcelata antipatia, non si può negarlo. C’era, poi, anche il sospetto che il privatista fosse solo un figlio di papà, viziato e ciuccio, spintonato verso la maturità grazie a raccomandazioni pesanti e dosi massicce di nozionismo dell’ultima stagione.

Generalmente la falce delle commissioni calava sui privatisti in un’epoca in cui i maturi al primo turno, per così dire, erano un’esigua minoranza, parecchi solo dopo il ballottaggio di settembre e non pochi i respinti senza pietà nel purgatorio dei ripetenti. I recidivi delle bocciature, spesso, s’arruolavano tra i privatisti. L’avventura continuava.

Capitava, e a me capitò, d’incontrare un professore che m’aveva preparato nella commissione vagabonda che ti toccava in sorte. In tal caso la giustizia scolastica non perdeva tempo e, per legittimo sospetto, ti destinava ad altra giuria esaminatrice. A me, appunto, successe: tentai delle dichiarazioni spontanee, ma non potei neanche aprir bocca. Ed eccomi nei grandi e luminosi corridoi del Liceo Classico “Virgilio” di Gioia del Colle, da privatista deportato, per giunta.

Era una bella mattina di luglio e l’aria profumava di campagna anche nelle aule stagionate della scuola e, anzi, l’odore d’erba e terra e frutta si mescolava con quel tanfo tenue che avevano un tempo le scuole: un misto d’inchiostro, polvere, gesso, sudore, lavanda della professoressa d’Educazione Fisica, merende, matite, carta di quaderno, legno dei banchi, greve fumo di Nazionali super, fiori appassiti e cesso.

Il sole allagava di luce il corridoio dove sedevano, uno per banco, i maturandi tutti vestiti a festa. S’usava andare all’esame così, con una pretesa, se non d’eleganza, certo di correttezza. Mia madre aveva imposto la camicia bianca e una cravatta regimental di mio padre, rossa e blu.

Questi tremanti figurini si sarebbero dovuti misurare con i temutissimi temi. M’era stato detto e ripetuto di far molta attenzione all’”elaborato” (così dicevano i Provveditori) d’Italiano, perché la commissione l’avrebbe tenuto in gran conto per valutare la maturità del candidato, a cominciare dalla scelta della traccia tra le tre regolamentari. Le trovai tutte e tre bellissime e sentivo che avrei avuto da scrivere in tutti i casi. Ci pensai su dieci minuti. Scartai il tema storico, diffidando della mia memoria delle date e della mia scarsa simpatia per le conquiste coloniali italiane di cui avrei dovuto discettare. Altrettanto feci con il tema di Storia dell’arte che, pure, m’affascinava con quella riflessione che ci si chiedeva sulle cattedrali. Avevo in serbo un’elegante citazione a proposito di quei vertiginosi libri di pietra, ma lo sfoggio non sapeva andar oltre e rinunciai. Mi restava la traccia letteraria. Era spaventosa e bellissima: “La concezione del dolore in Leopardi e Manzoni”. Punto. Tutto qui.

M’avventai sul foglio protocollo e sciorinai tutto quello che avevo imparato ad amare su quell’argomento. Mentalmente ringraziavo il mio amatissimo professor Peppino Ricapito che aveva avuto il coraggio di affardellarsi del compito di istruire quel bel pezzo di privatista ch’ero io e scrissi a braccio con veemenza e passione direttamente in “bella”. Ammetto un piccolo peccato di vanità con il rimorso alimentato dalla nostalgia: consegnai dopo tre ore tra l’incredulità e l’invidia dei compagni. Uscii che il sole era quasi a picco.

Adesso m’accorgo che la vanità perdura: avevo cominciato a scrivere un prologo per trattare delle vicende arruffate e incomprensibili, in cui si dibatte la scuola italiana che rischia tra lo sgomento e la confusione di non riuscire a compiere l’irrinunciabile cammino educativo: si discute se consentire o meno l’uso del telefono cellulare nelle aule, durante le lezioni. Solo un ostinato ciuccio ripetente annidato dei ceti dirigenti può ignorare che quegli arnesi informatici sono fonte di sapere preziosa solo nella custodia magistrale degli insegnanti. Diventano milizie mercenarie dell’indolenza giovanile, la conosco bene, che il magistero della scuola deve correggere e reprimere, se necessario. I nativi digitali sono ancora all’asilo anche se sono ormai quasi adulti.

Avrei voluto, ma sarei andato fuori tema. Meglio “i ricordi”, come avrebbe scritto il Manzoni o “le ricordanze” come avrebbe poetato il Leopardi.

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