Lessico meridionale
Il «teatrino della politica»? Lo spettacolo è una cosa seria
Da giovane il “Cut” di Bari, ora i grandi palcoscenici. «Quando avvertii la mia famiglia che volevo fare quel mestiere calò un sipario di silenzio imbarazzato»
Quando vogliono disprezzarsi a vicenda i praticoni della politica, anche di rango eminente, usano la parola «teatro» con le varianti di «teatrino», «commedia», «operetta». Intimo a tutti i politicanti a vario titolo di astenersene. E, con un ricordo personale, tento di spiegarne la ragione.
Quando avvertii la mia famiglia che volevo fare il mestiere del teatro calò un sipario di silenzio imbarazzato. Buon segno, se non altro non si sarebbe data battaglia, pensai. Era, in realtà, la forma di rispetto che si porta agli inconsapevoli segnati da Dio che meritano la taciturna e rassegnata comprensione di affini e famigliari che pensarono: se è capitata questa disgrazia, l’affronteremo con serenità. Dissuadermi, lo capirono subito, sarebbe stato inutile, contrastarmi pericoloso, entusiasmarsi inopportuno.
Fui assecondato, come si fa con gli squilibrati. Ma non per indifferenza alle Muse! In casa mia il teatro era amato. S’ascoltavano le commedie alla radio con passione e diligenza. Mia madre ci riuniva intorno all’apparecchio, in tinello, come in una minuscola platea che, silenziosa, s’immergeva nei velluti e nelle quinte dell’etere per immaginare la scena e gli attori.
I miei genitori si assicuravano il palco al Teatro Piccinni per la stagione di prosa e rivista e al Petruzzelli per la lirica. Mamma prediligeva la “Lucia di Lammermoor” e mio padre “Tosca”. Insomma, in casa mia gli illetterati renitenti all’arte avevano vita grama. Ma non v’era chi, tra le mura domestiche, non intravedesse le minacce connesse alla vocazione istrionica. Mia madre già m’immaginò trascinarmi tra i saltimbanchi ad elemosinare una maschera e un tozzo di pane: quando imparavo i versi di Quasimodo dedicati alla madre (versi che ora non posso più leggere, pena uno stranguglione di pianto), m’immaginavo con quel “mantello corto e quel pugno di versi in tasca” abbandonare nottetempo non le “foci dell’Imera”, ma l’Ateneo di Bari dov’era la mia bella Facoltà di Lettere.
E fu quell’Ateneo a scongiurare le ansie famigliari per il rischio del vagabondaggio appresso a traballanti carri di Tespi e, tra quella gente studiosa di cercare alternative culturali, covai con un manipolo di “sconsiderati” la vocazione teatrale e questa fiorì alla faccia delle accidie provinciali. Era il Cut, il Centro Universitario Teatrale di Bari che Egidio Pani aveva inventato in un fatidico scantinato della Casa dello Studente. Fu la stagione più bella non solo della mia vita, ma, anche, di quella di tanti amici che, come me, avevano affrontato scettici deschi domestici per riaffermare il diritto minimo e sacrosanto di scalare il Parnaso, anche se si ergeva in una ex barberia della Casa dello Studente. Furono gli anni dello studio e della ricerca, dei successi e degli errori, errori di una madornale bellezza e successi dolcissimi.
Mio padre veniva, di nascosto, a vedere le prove degli spettacoli per convincersi non solo della veracità della vocazione, ma, anche, opportunamente, della sua plausibilità. Una notte, dopo la prima del mio “Romeo e Giulietta e la peste”, mi lasciò in cucina un biglietto di consenso burbero e pieno d’amore che diceva che ero, sì, matto, ma, anche geniale. Mia madre aveva chiosato con l’avvertimento che le mozzarelle erano in frigorifero e i calzini puliti sul termosifone. Era il viatico. La mia vera carriera cominciò quella notte.
Mi visitano, questi ricordi, nei giorni in cui mi accingo alla regia al Teatro Bellini di Catania delle “Nozze di Figaro” di Mozart: opera cruciale che vede la collaborazione fatidica e geniale del salisburghese (nato a pochi passi da Mirabellplatz, guarda un po’) con Da Ponte, italiano di Ceneda (Vittorio Veneto) alle prese con la parte seconda della trilogia di Beaumarchais.
Ho avuto la gioia di inscenare la prima parte, “Il barbiere di Siviglia” di Rossini, in un teatro che cominciava la sua nuova vita, al Petruzzelli. La famigliarità con Beaumarchais cominciò: questo inventore del teatro moderno e precursore sornione e inerme della Rivoluzione Francese, trova in Mozart, Paisiello e Rossini i realizzatori musicali della letteratura tanto temuta dai reali di tutta Europa e dall’aristocrazia al tramonto.
Tutto questo, immaginazione e realizzazione del racconto di Beaumarchais, amore sconfinato per Rossini, incontro emozionato con Mozart, tavole del palcoscenico, musica sublime, cantanti e artisti che aspettano la guida, si realizza grazie a qualche severa rinuncia giovanile e al sogno di quello che fu il “Cut Bari”.
A quelle scorrerie di emozioni giovanili ripenso passeggiando in via Sparàno, a Bari, dove capii che il teatro è un sogno serio. Dunque, intimo agli sconsiderati ignoranti che se ne servono per insultarsi di cercare altrove le loro contumelie: non hanno che l’imbarazzo della scelta.
A proposito: ho dato appuntamento ad oggi ai lettori curiosi di sapere chi sia stato Sparàno da Bari. Fu insigne nella politica del suo tempo, nel XIII secolo, tale Sergius Sparari, Catapano di Bari, prendendo in appalto le finanze locali e bene deve aver operato se la “Treccani” usa spazio per lui, se a Bari il bravo scrittore Giovine gli dedica un bel libro. Se, infine, la toponomastica moderna gli ha dedicato la strada bella di Bari. Noi del Cut ci andavamo a discutere. Anche di politica e di teatro.