Si è concluso con una raffica di prescrizioni il processo per gli imputati coinvolti nell’inchiesta «Gold plastic» guidata dall’allora pm dell’Antimafia di Lecce, Alessio Coccioli. È stato il collegio presieduto dal giudice Laura Orlando a decretare il non doversi procedere nei confronti di 20 persone fisiche stabilendo inoltre la restituzione di quanto sequestrato dall’autorità giudiziaria e decretando l’esclusione della responsabilità per 8 società, per mancanza di elementi a riprova dell’illecito amministrativo.
L’operazione della Guardia di Finanza scattò il 6 dicembre del 2011 quando furono eseguite 54 misure cautelari su firma del gip di Lecce Cinzia Vergine.
Oltre agli arresti, i militari del Gruppo di Taranto e i funzionari del servizio antifrode della Dogana operarono sequestri preventivi di beni nei confronti di 17 aziende e 7 privati fino alla concorrenza di un valore complessivo di oltre 6 milioni di euro. Gli inquirenti avevano infatti rilevato l’assenza delle autorizzazioni previste dalla normativa ambientale per l’esportazione dei rifiuti, la falsa indicazione del codice identificativo, la mancanza dei trattamenti preliminari, e l’inesistenza dell’impianto di recupero di destinazione indicato nei documenti che scortavano i rifiuti. Nel porto di Taranto e in altri scali marittimi italiani erano state sequestrate oltre 26 tonnellate (due milioni e 600mila chili) di rifiuti speciali pronti per esser spediti illecitamente in paesi del Sud-Est asiatico in 114 container.
L’operazione «Gold plastic» rappresentava l’epilogo di un’inchiesta che aveva portato al sequestro di numerosi container (tra l’aprile 2009 e il febbraio 2010) carichi di rifiuti speciali diretti in Malesia, Corea del sud, Vietnam, Hong Kong e Cina. Tredici i pugliesi coinvolti: 8 del barese, uno di Lecce e quattro di Taranto.
Si trattava, per quanto riguarda il capoluogo ionico, del trasportatore di una società di spedizioni che era accusato di più illecite spedizioni; di un altro corriere doganale di Taranto e di due donne, difese entrambe dall’avvocato Egidio Albanese, che erano impiegate come subagenti in agenzie marittime.
Secondo la tesi dell’accusa al vertice dei due sodalizi criminali c’era un imprenditore di Bari che gestiva il gruppo insieme a un cittadino cinese.
La Direzione distrettuale Antimafia aveva contestato l’accusa di associazione a delinquere con profili di transnazionalità: un’attività organizzata per il traffico di riciclo di rifiuti, un’attività di gestione di rifiuti non autorizzata, una sistematica falsità ideologica commessa da privati in atti.
[a.c.]