Il caso
Taranto, nuovo processo d’appello sul tesoro di Giuseppe Catapano
La Cassazione accoglie il ricorso degli avvocati e rinvia la confisca
TARANTO - Sarà un nuovo processo d’appello a stabilire se il tesoro costruito dal tarantino Giuseppe Catapano è di provenienza illecita o meno. Lo ha deciso la Corte di Cassazione accogliendo il ricorso degli avvocati Gaetano Vitale e Luigi Esposito e annullando con rinvio a un nuovo collegio di secondo grado la sentenza di confisca di beni per un valore complessivo di 5 milioni di euro. Dinanzi alla Suprema Corte i difensori del 56enne hanno dimostrato che non vi sono sufficienti elementi per affermare che quel tesoro composto da due ville, un’abitazione, otto magazzini e un terreno, ubicati tra Taranto, Castellaneta Marina e Martina Franca, nonché quote societarie, cinque compendi aziendali (operanti nel settore ittico), numerosi veicoli e conti correnti, sia stato costruito nel tempo con soldi provenienti da attività illecite. I due avvocati hanno depositato documenti e nuovi elementi che hanno scalfito la tesi dell’accusa e convito i giudici che hanno così disposto un nuovo giudizio di secondo grado.
Poco dopo quel sequestro, la magistratura mise sotto chiave anche due società, ma questo filone procede in un giudizio separato. Giuseppe Catapano, inoltre è coinvolto in una vicenda di inquinamento ambientale, gestione di rifiuti non autorizzata e disastro ambientale permanente per aver alterato l’ecosistema del litorale ionico, con incursioni anche sulle coste di Bari, Brindisi e Lecce, asportando dal gennaio del 2015 in poi tonnellate di oloturie, i cosiddetti «cetrioli di mare», causando quasi l’estinzione di questa specie di molluschi. Le indagini del pm Mariano Buccoliero, per l’accusa, hanno portato alla luce due presunte associazioni per delinquere facenti capo a un unico gruppo familiare guidato da due fratelli. La prima è formata proprio da Giuseppe Catapano e da alcuni parenti e amici mentre l’altra farebbe capo a Emanuele Catapano e altri soggetti. Per l’accusa il gruppo avrebbe gestito numerosi pescatori abusivi e asportato dalle coste decine di tonnellate di esemplari di oloturie «cagionando così - è scritto nel capo di imputazione - un grave danno alla biodiversità presente nei tratti di mare interessati, nonché l’alterazione grave e irreversibile dell’ecosistema marino ivi esistente». Secondo una perizia del Consiglio nazionale delle ricerche commissionata dalla procura, la mattanza incontrollata ha provocato danni alla biodiversità giacché l’oloturia è ritenuta lo «spazzino del mare». Le oloturie vivono sui fondali marini e filtrano sabbia, fango e sedimenti trattenendo le particelle di materiale organico, microalghe e batteri. Gli imputati sono accusati anche di inquinamento ambientale e gestione non autorizzata di rifiuti per aver gettato in mare i molluschi non utili anziché smaltirli come rifiuti speciali. Secondo gli investigatori dietro alla razzia di oloturie, mollusco che fino a qualche anno fa non era neanche pescato, c’è un business milionario di export verso Cina e Hong Kong, dove l’oloturia è molto ricercata, sia per uso alimentare che per uso cosmetico e farmaceutico. Sul mercato cinese un chilo di oloturie può costare anche 500-600 dollari. Un giro di affari molto appetibile: i guadagni sono enormi e la pesca di oloturie non è regolata dalla legge al punto che in Italia c’è già il rischio estinzione.