Il Tribunale di Lecce ha confiscato beni per 20 milioni di euro sequestrati dalla Guardia di finanza di Taranto a Michele Cicala, tarantino ritenuto dalla Dda di Lecce al vertice di un clan che attraverso una serie di attività illecite avrebbe reinvestito un fiume di denaro in bar, ristoranti e una serie di attività. Su richiesta del pm Milto De Nozza della Direzione distrettuale antimafia di Lecce, i magistrati hanno confermato la misura patrimoniale nei confronti di Cicala e di una serie di donne e uomini ritenuti a lui vicini.
Un «impero economico di notevole portata» lo hanno definito i giudici nelle 47 pagine di provvedimento con cui hanno ribadito come la «costituzione di varie società ed imprese individuali intestate ad altri soggetti» era stato possibile reinvestendo gli importanti introiti economici derivanti dagli affari illegali, in particolare quelli sulle frodi con la vendita di gasolio agricolo a imprese e soggetti che non avevano diritto, incassando così le agevolazioni previste sulle accise. «Non vi è dubbio – scrive il tribunale - che il Cicala abbia notevole capacità imprenditoriale e spiccato senso per gli affari ma è altrettanto vero che nella circostanza abbia tratto profitti illeciti dalle frodi sulle accise e li abbia reinvestiti non solo nelle aziende dedite al commercio di idrocarburi, ma anche, almeno in parte, nella apertura e successiva gestione di attività commerciali nel settore della distribuzione di bevande ed alimenti». Sotto chiave, quindi, è finita la fortuna che il tarantino avrebbe costruito dal 2017 in poi: le imprese «Dolci Incantesimi srl», «The Family», la «Primus», l’a società informatica «Cab» «Kcl Fuel». E ancora «Primus Group srl», la «Primus Talsano srl», un appartamento a Tramontone, quattro auto di grossa cilindrata, una moto Honda e diversi conti correnti.
La sua «grande abilità nel governare i flussi di denaro» hanno inoltre aggiunti i giudici ha reso «piuttosto difficoltosa la ricostruzione degli investimenti di natura illecita in ogni singola attività commerciale», ma è necessario partire da «un punto fermo» e cioè che nel 2017 Cicala, oggi difeso dagli avvocati Andrea e Salvatore Maggio, dopo la lunga detenzione per le condanne riportante nei processi «Mediterraneo» e «Scarface» non disponeva di denaro sufficiente per effettuare investimenti: lui stesso in udienza ha ammesso le sue responsabilità sulle frodi petrolifere e quindi per la magistratura non è convincente che a queste condotte vengano poi seguite «un contegno virtuoso e apprezzabilmente ispirato ad intraprendenza economica e ad intenso sacrificio lavorativo, in comunione di intenti con svariati soggetti fra i quali, guarda caso, due componenti del sodalizio dedito alle truffe come Aria Marco e Buscicchio Pietro».
A questo si aggiungono i numerosi riscontri documentali e investigativi raccolti dalle fiamme gialle nella fase d’indagine: «La commistione degli interessi fra l'attività criminale sull'asse Taranto-Salerno nel settore dei prodotti petroliferi e l'attività imprenditoriale avviata nello stesso arco temporale nel capoluogo jonico emerge, come si è visto, in numerose intercettazioni che oltretutto smentiscono l'assunto del Cicala di aver guadagnato illecitamente appena 40-50 mila euro in parte spesi in consumi personali e in parte donati al padre, dovendosi prendere in considerazione proventi percepiti» anche dai complici Aria e Buscicchio.