TARANTO - «Non ho mai creduto nel suicidio di mio padre. So che mai sarebbe andato via senza lasciare una spiegazione, una lettera per noi figli. Avrei dovuto raggiungerlo in Puglia, e poi, insieme, saremmo andati in macchina, a Roma, per testimoniare nel processo contro Raniero Busco, l’ex fidanzato di Simonetta Cesaroni. Era tranquillo, so che aveva consultato l’avvocato Franz Pesare, un penalista di Sava, un paese della provincia di Taranto. So che voleva testimoniare. Non so cosa avrebbe raccontato ma sono certo, conoscendolo, che mai avrebbe permesso la condanna di un innocente». Così parlava Mario Vanacore, il figlio di Pietrino Vanacore, il portiere di via Poma che fu trovato morto suicida il 9 marzo del 2010 nelle acque di Torre Ovo in provincia di Taranto. Le sue dichiarazioni furono raccolte dalla giornalista e scrittrice Raffaella Fanelli in un libro sul delitto.
Oggi però, almeno secondo una corposa informativa dei carabinieri consegnata nelle mani dei magistrati della Procura di Roma, si adombra l’ipotesi che ad uccidere Simonetta Cesaroni sarebbe stato proprio Mario Vanacore, il figlio del portiere del condominio di via Poma. Il colpo di scena della procura capitolina ha riacceso i fari su uno dei “cold case” italiani mai risolti. Anche se gli stessi magistrati parlano di «ipotesi e suggestioni» che «non consentono di superare le forti perplessità sulla reale fondatezza del quadro ipotetico tracciato». Per questo lo scorso 13 dicembre hanno chiesto l’archiviazione del fascicolo aperto due anni fa in seguito ad un esposto della famiglia della ragazza uccisa il 7 agosto del 1990.
In cima alla lista dei sospettati, i carabinieri mettono proprio Mario Vanacore, il figlio di Pietrino, il portiere dello stabile che già tre giorni dopo l’omicidio di Simonetta Cesaroni venne prima fermato (passò quasi un mese in carcere) e poi rilasciato. A 20 anni di distanza dall’omicidio, l’uomo si suicidò a pochi chilometri da Monacizzo, la frazione di Torricella in provincia di Taranto dove si era stabilito con la moglie dopo i fatti di via Poma. Nel 2010, a pochi giorni da una sua deposizione nell’ambito del processo nei confronti dell’ex di Simonetta Cesaroni, Raniero Brusco, Pierino Vanacore si lasciò affogare in un corso d’acqua lasciando una scritta su un cartello: «20 anni di sofferenze e di sospetti ti portano al suicidio».
Secondo quanto ricostruito dai carabinieri di Roma, il pomeriggio del 7 agosto del 1990, Mario Vanacore entrò negli uffici di via Poma, dove Cesaroni lavorava da circa due mesi come segretaria. Trovatosi inaspettatamente davanti alla ragazza, l’avrebbe trascinata «nella stanza del direttore» - dove poi venne trovata cadavere - per poi tentare di violentarla, ma la giovane riuscì a colpirlo ferendolo. A quel punto - scrivono i carabinieri - «l’uomo reagisce, sferrandole un violento colpo al viso che la stordisce e la fa cadere a terra». Così si sarebbe arrivati al momento dell’omicidio con «l’uomo che si impossessa dell’arma del delitto e a cavalcioni della ragazza, supina a terra, la colpisce per ventinove volte».
A coprire le responsabilità di Mario Vanacore, sempre secondo l’informativa dei carabinieri, sarebbero stati gli stessi genitori, Pietrino e Giuseppa De Luca, che avrebbero mentito agli investigatori nella fase delle indagini tirando in ballo anche il datore di lavoro di Simonetta Cesaroni, Salvatore Volponi. Circostanza che sarebbe confermata anche dall’attività svolta dalla commissione parlamentare antimafia della scorsa legislatura, secondo la quale il portiere «scoprì il cadavere» di Simonetta Cesaroni «ore prima dell’ufficiale ritrovamento del corpo». A detta della commissione vi fu una attività «post delictum, intesa ad occultare il fatto omicidiario o quantomeno a differirne la scoperta, oppure persino ad attuare un qualche proposito di spostamento della salma dal luogo in cui fu poi rinvenuta».