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Acciaio senza carbone, Arcelor Mittal «dimentica» l’Ilva di Taranto. Urso: «Risposte o interverrà lo Stato»

 
Mimmo Mazza

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Mimmo Mazza

Acciaio senza carbone, Arcelor Mittal «dimentica» l’Ilva di Taranto

I piani della multinazionale in tutto il mondo tranne che per il sito jonico. Si punta a riconvertire la produzione, abbandonando il ciclo integrale a favore dei forni elettrici

Martedì 18 Aprile 2023, 13:20

21 Aprile 2023, 21:41

TARANTO - Il 2021 è passato alla storia per ArcelorMittal, la multinazionale che dall’1 novembre del 2018 gestisce in fitto il complesso aziendale ex Ilva, come quello dei profitti record con un utile di 17 miliardi di dollari. Il 2022 è andato meno bene a causa della guerra in Ucraina e del caro energia ma si è comunque chiuso con un utile netto di oltre 9 miliardi di dollari.

Numeri che consentono all’azienda franco indiana, leader nella produzione di acciaio, di pianificare la decarbonizzazione dei suoi impianti sparsi per il mondo. Addio al carbone che, però, non riguarda lo stabilimento siderurgico di Taranto.

La famiglia Mittal ha gestito direttamente l’acciaieria tarantina dal novembre 2018 all’ottobre 2019, inviando un proprio team di manager e dirigenti capitanati da Matthieu Jehl. Dopo nemmeno un anno, contrassegnato da difficoltà di mercato e di produzione, oltre che da problemi politici con i governi Conte I e II per via della cancellazione dell’esimente penale, ArcelorMittal richiamò le sue donne e i suoi uomini, affidando le chiavi dell’azienda a Lucia Morselli. La partecipazione italiana è stata poi deconsolidata dal gruppo, è stata fondata una nuova società - Acciaierie d’Italia - della quale alla famiglia Mittal è riconducibile il 62% del capitale sociale mentre il restante 38% è in capo a Invitalia, braccio operativo del ministero dell’Economia. Nel consiglio di amministrazione di Acciaierie d’Italia, oltre alla Morselli, siedono Ondra Otradovec, responsabile delle acquisizioni di ArcelorMittal, e Eric Niedziela, vice presidente di ArcelorMittal Europa.

Dopo l’esperienza tarantina e alcuni mesi fuori dal perimetro aziendale, Matthieu Jehl è tornato a lavorare in ArcelorMittal, divenendo l’amministratore delegato della controllata francese. Proprio Jehl sta lavorando in stretto conttatto con il presidente transalpino Emmanuel Macron nella sfida di decarbonizzare l’industria francese. Macron ha lanciato un piano che ha preso di mira i «50 siti più emittenti di anidride carbonica in Francia». Una sfida ecologica ma anche economica: è solo riuscendo a negoziare la svolta della transizione che l’industria francese potrà assicurarsi un futuro.

«È la nostra responsabilità sociale» ha detto Jehl, aggiungendo: «Quello che stiamo per fare non è stato fatto da nessun altro nella costruzione delle ultime grandi industrie siderurgiche o delle ultime raffinerie». ArcelorMittal così scommette in particolare sui forni elettrici che andranno a sostituire gli altiforni tradizionali e a una strategia complessiva finalizzata a ridurre e minimizzare le emissioni di carbonio nelle acciaierie di Dunkerque e Fos-sur-Mer con investimenti nell’ordine di diverse centinaia di milioni di euro.

E a Taranto? Nulla di nulla. L’acciaieria ex Ilva continua a basare la sua ridotta produzione sugli altiforni tradizionali (l’1, il 2 e il 4, utilizzati in maniera alternata nel tentativo di prolungarne il ciclo operativo giacché si tratta di impianti tutt’altro che moderni), il rifacimento dell’altoforno 5, spento nel 2015 e fino ad allora in grado di garantire il 40% della produzione complessiva di ghisa, oltre ad essere il più grande d'Europa, è stato più volte annunciato e ora risulta programmato per la fine dell’anno, con risorse però tutte da trovare. La decarbonizzazione continua ad essere un argomento buono per infiammare il dibattito politico o organizzare convegni, i forni elettrici ogni tanto fanno capolino nelle slide, senza che nessuno si accerti su chi garantirà, da dove e a che prezzo l’energia necessaria per attivarli, gli oltre 12 mila dipendenti - tra diretti e indiretti - restano sospesi tra la cassa integrazione e gli annunci di accordo di programma che potrebbero nascondere nelle pieghe la chiusura della fabbrica o la forte riduzione di personale.

Quando il 6 giugno del 2017 l’allora ministro allo Sviluppo economico Carlo Calenda firmò il decreto di aggiudicazione dell’Ilva ad ArcelorMittal sembra l’inizio di una discesa fiorita: 2,4 miliardi di euro di investimenti, piena occupazione, produzione attestata a 6 milioni di tonnellate di acciaio l’anno (tetto mai toccato dal 2012 ad oggi) e 8 milioni dal 2024. L’aver scelto il primo produttore di acciaio al mondo come partner della nuova Ilva sembrava l’uovo di Colombo, garanzia di riuscita e di successo. Con il senno di oggi, pare difficile smentire la tesi di chi ha sempre sostenuto che l’operazione Ilva per ArcelorMittal era finalizzata unicamente a togliere dal mercato uno scomoda concorrente.

LE DICHIARAZIONI DEL MINISTRO URSO

«Ci aspettiamo a breve una risposta dell’azienda, altrimenti interverrà lo Stato». Lo ha detto il ministro per le Imprese e il Made in Italy, Adolfo Urso, parlando degli impegni chiesti ad Acciaierie d’Italia per il rilancio degli stabilimenti dell’Ex Ilva di Taranto.

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