La storia
Taranto, il cantante-operaio passato dalla musica napoletana alla fabbrica
Massimo Del Giudice racconta la sua storia, dai Tamburi al successo
C’è sempre una tuta blu in questa storia. Portafortuna prima e testimonianza d’amore poi. E c’è la musica e una città, Taranto con i suoi quartieri popolari e il sorriso della gente semplice.
C’è un amore, ma di quelli che non ti fanno respirare, a cui restare abbracciato. Sempre. Al punto da rinunciare per tanti anni alla musica, la grande passione di Massimo Del Giudice, protagonista di questa storia che è stato lontano dal microfono per quasi 18 anni. Fino a qualche giorno fa, quando su tutte le piattaforme è stata pubblicata «Per te», il primo brano dopo un silenzio interminabile: Massimo ha scritto il testo e composto la musica insieme agli arrangiamenti di Midside Studio di Mirko Morabito. Ma c’è stato un tempo in cui è stato famoso: partito dal teatrino parrocchiale di san Francesco de Geronimo, al quartiere Tamburi, è arrivato alla Rai e poi è finito in tournée, nel Nord America. Una storia vecchia, lontana.
Tutto cominciò tra le strade del rione all’ombra delle ciminiere. Massimo, classe 1973, viveva al civico 2 di via Orsini: «Giocavo a pallone nei cortili su via Napoli, la salita che conduce ai Tamburi, ma anche a piazza Archimede oppure a Porta Napoli» ricorda seduto sul divano della sua casa. Accanto a lui c’è Deborah, l’amore di sempre. Il nuovo brano è dedicato a lei, l’amore che non ha mai lasciato. Quello che ha resistito persino alle tentazioni del successo. Intorno a loro Pupa, un barboncino allegro scodinzola senza sosta. Nell’altra stanza ci sono Marianna e Noemi, hanno 16 e 8 anni. Chiara, la figlia maggiore, ha 24 anni ed è Milano dove continua a studiare dopo la laurea.
«Da bambini – continua a Massimo – quando arrivava l’estate, facevamo il bagno dal ponte di pietra. Oppure in città vecchia: l’isola l’ho sempre amata». Un’infanzia serena, come quella di migliaia di bambini cresciuti tra le vie dei quartieri popolari dove si giocava al curruchele, a manuel zozzò oppure a livorije. Parole sbiadite che solo a pronunciarle generano nostalgia. «La scuola? Frequentavo il plesso “Peluso”, dove c’è oggi l’Asl. Andavo bene, ma preferivo le recite: mi facevano cantare». Lui cantava sempre. È stato suo padre a iniziarlo, senza saperlo e forse senza volerlo, alla canzone napoletana. «Non neomelodica, napoletana» precisa Massimo: «si canta l’amore, non i tradimenti o altro. Solo l’amore». Nel 1981, a otto anni, aveva inciso il primo album. «Qualche mese prima nella parrocchia di don Nino Borsci organizzarono un festival per bambini: il padre di una mia amica mi spinse a partecipare. Scelsi “Hai fatto buca”, un vecchio brano di Sal Da Vinci ché era quasi un bambino come me. Il giorno dell’esibizione rubai 10 mila lire da casa, andai prima dal parrucchiere per la lacca coi brillantini e poi al mercato dei Tamburi: comprai una tuta blu». La sua famiglia, intanto, da via Orsini si era spostata in via della Croce, distante abbastanza da non sapere nulla di quel concorso.
«Era sabato sera, arrivai in parrocchia da solo. Vinsi il festival. Quella tuta blu divenne il mio portafortuna». Ma i Tamburi erano già allora, un paesino. Le voci correvano. «Mio padre mi chiese di cantare per vedere se era vero quello che tutti dicevano. Lui suonava la chitarra». Poco dopo sulle bancherelle comparve la musicassetta con il suo volto: nell’album «Sott’e stelle» c’era anche il brano di Sal Da Vinci. Cominciarono le prime serate dal vivo: «Dopo la festa della Stella Maris il mio nome cominciò a girare. Divenni la spalla di gente famosa: cantai insieme a Nino D’Angelo allo Iacovone, era il mio mito. E poi Anna Oxa al Tursport e le serate con Pippo Franco e Fabrizio Frizzi». L’adolescenza, intanto, era arrivata: «Avevo ancora la voce bianca, dovevo aspettare che cambiasse. Sono stati anni di attesa». Nel frattempo la vita andava avanti: «Con gli amici facevamo le “vasche” da San Francesco de Geronimo a Gesù Divin Lavoratore e poi lo struscio si spostò in centro: avanti e indietro per via D’aquino. E la sera mangiavamo la pizza all’Approdo, il ristorante tra corso due Mari e via Matteotti».
A 14 anni Massimo tornò a cantare: «Uno dei brani si chiamava proprio “Torno a cantà” e l’album era “Sognando e risognando”». Quel nuovo lavoro aprì circuiti ben più grandi: cominciarono i concerti in tutta la Puglia, ma anche in Calabria e in Sicilia. E poi le radio e le tv. Era il 1989, un anno difficile per Taranto: la guerra di mafia faceva morti quasi ogni giorno. Soprattutto ai Tamburi. «Io per fortuna in quegli anni ero spesso fuori Taranto. Giravo quasi tutto il meridione». Le prove erano frequenti, ma coi musicisti, c’era sempre qualche problema: «Litigavano o avevano altro da fare e così rubai la musica con gli occhi e le orecchie. Imparai a suonare la chitarra e capii che volevo comporre: non mi bastava scrivere le parole, volevo sentire i brani interamente miei». Massimo cominciò a prendere lezioni di pianoforte e poi da autodidatta scoprì anche il basso e la batteria. In quegli anni arrivò il successo e dopo le medie lasciò la scuola: «Ecco, quello è il mio grande rimpianto».
Ma in quegli stessi anni, nella sua vita, arrivò Deborah. «Una sera si presentò sotto casa con un motorino, mi chiese se fossi Massimo Del Giudice. Non ci siamo mai più staccati. Prima è stata un’amicizia, poi amore». Un anno più tardi, il primo album scritto e musicato da Massimo, vide la luce: c’era la cover in napoletano di un successo di Eros Ramazzotti, «Una storia importante». Anche per Massimo fu un trionfo. In quegli stessi anni, la Gialappa’s band lo prendeva in giro durante «Mai dire tv» e Massimo lo ricorda con gioia: «Me lo disse proprio Deborah, io non ne sapevo nulla. Successe una cosa strana: più mi prendevano in giro e più mi chiamavano a cantare. Mi ritrovai persino a fare due concerti nella stessa sera». E per la prima volta, Massimo volò oltre i confini italiani, in Germania: «Sì, fu bellissimo, ma mai come la serata che di lì a poco feci a Taranto vecchia. Sì, lo so che non si può paragonare a una tournée all’estero, ma quella era casa mia e c’erano 30mila persone a cantare con me. Era la mia gente. Con il mio volto sulle magliette».
Il lavoro continuò a crescere: Massimo si piazzò al terzo posto al festival di Napoli. Qualche settimana dopo volò in Canada: «un mese tra Toronto, Montreal. Ero il piccolo della compagnia, avevo 17 anni e suonavo i grandi classici napoletani: cantavo e mi riempivano di dollari. Io li spendevo quasi tutti a telefonate: Deborah era sempre il mio pensiero fisso». Fu in quel momento che provò a cantare in italiano. «La musica napoletana era ghettizzata: era per i terroni. Per sorpassare Roma scrissi “Il mio italiano”. Volevo affermarmi: Nino D’Angelo c’era riuscito. Partecipai alle selezioni per festival di Ariccia e arrivai in finale, trasmessa in diretta su Rai 2. All’ultima prova venne da me Teddy Reno, mi disse iniziare il brano suonando al pianoforte: fu un successone». Quell’esperienza continuò a portare in alto il suo nome, ma cominciava ad avere un sapore diverso: «Se avessi continuato a cantare in italiano avrei forse sfondato, ma a me piaceva cantare in napoletano. È sempre stato un modo per sentirmi più vicini al posto da cui provengo, a chi mi ascolta e mi sente vicino perché è difficile cantare in italiano per chi ha sempre parlato in dialetto. E io cantavo per loro». Gli impegni, a quel punto, erano troppi: «Mi sentivo soffocare, non trovavo il tempo per stare con Deborah. Cominciai a pensare che la mia vita doveva venire prima. E così tirai il freno a mano. Scelsi l’amore. Ho sempre scelto l’amore». Massimo e Deborah si sposarono nel 1997 e poco dopo nacque Chiara. Nel 2003, proprio a lei era dedicato il brano «Nenè» che diede il titolo al suo ultimo album. «Nel 2005 capisco che dovevo fermarmi e le luci si spensero».
In quel momento nella sua vita tornò la tuta blu, ma questa volta era quella dell’Ilva, la fabbrica in cui ancora oggi lavora. La tuta blu che da bambino portava fortuna ora era una scelta d’amore per la sua famiglia. Da allora Massimo ha guardato la musica da dietro le quinte. Fino a poche ore fa. «“Per te” è solo una dichiarazione d’amore per Deborah. Un’altra. Non è né un ritorno alla musica né una parentesi. Non lo so cos’è. Ho solo voglia di cantare come sempre. Come quando avevo otto anni e vincevo il festival alla piccola parrocchia dei Tamburi. Con la tuta blu».