TARANTO - «Quello del 2018 non fu un accordo bluff. Per i sindacati e i lavoratori quell’accordo è ancora valido. Fu firmato dal Ministero dello Sviluppo Economico, da Am InvestCo, da Ilva in As, dai sindacati, fu poi votato e approvato in un referendum dai lavoratori. In quell’accordo, che tiene dentro lavoro, salute e ambiente, è previsto il riassorbimento a fine piano dei 1600 operai di Ilva in As e ci sono dei vincoli e dei parametri da rispettare». Piero Vernile, operaio del Siderurgico e rappresentante della Uilm, torna a parlare dell’accordo del 6 settembre 2018 che fu ratificato quando ministro dello Sviluppo Economico era Luigi Di Maio e che fu definito migliorativo rispetto al patto siglato dal suo predecessore Carlo Calenda. L’intesa che spianò la strada all’ingresso di ArcelorMittal prevedeva la riassunzione immediata di 10.700 lavoratori (di cui 8200 a Taranto) e la garanzia della contrattualizzazione entro il settembre 2025 degli esuberi rimasti nel 2023 senza ritoccare al ribasso il costo del lavoro. Quell’accordo è stato poi superato dagli eventi che hanno portato alla definizione della nuova compagine societaria con l’ingresso dello Stato, tramite Invitalia, al fianco della multinazionale franco-indiana.
«La responsabilità - osserva Vernile - è del governo e della politica tutta. Per chiudere anche il contenzioso giudiziario c’è stato l’accordo tra lo Stato e ArcelorMittal, di cui ancora non si conoscono bene i contenuti. Piano che non fu condiviso con i sindacati. Per noi quell’accordo del 2018 è valido. Se deve essere cambiato, bisogna sedersi a un tavolo, pensare a strumenti speciali, come è avvenuto per l’amianto, dire chiaramente qual è il piano industriale di quell’azienda, quanti milioni tonnellate l’anno deve produrre nel rispetto dei vincoli ambientali, quanti esuberi sono previsti e se sono strutturali». Bisogna garantire «un futuro - attacca Vernile - a tutti i lavoratori, non con le parole e le chiacchiere. Noi siamo pronti a mettere in campo tutte le iniziative di mobilitazione necessarie».
Quale destino per i 1600 lavoratori rimasti alle dipendenze di Ilva in As? Di loro non si fa menzione nemmeno nella procedura di cassa integrazione straordinaria per ristrutturazione attivata - senza accordo sindacale - da Acciaierie d’Italia per 3mila lavoratori in tutti i siti del gruppo, di cui 2500 a Taranto, a partire da lunedì scorso e per 12 mesi (ma la società ha già prospettato successive proroghe fino al 2025). L’azienda spiega nel documento che i volumi di produzione di 6 milioni di tonnellate sono «non sufficienti a garantire l’equilibrio e la sostenibilità finanziaria degli oneri derivanti dall’attuale struttura dei costi».
L’assetto di marcia prevederà inizialmente una produzione di 15mila tonnellate d’acciaio al giorno rispetto alle circa 20mila tonnellate al giorno producibili ad assetto produttivo ordinario. Questo, si fa rilevare, «determinerà inevitabilmente una riduzione del personale presente, oltre a dover gestire momentanee inattività dello stesso, derivanti da temporanee fermate». La società avverte che «solo il completamento della prevista riorganizzazione aziendale, che si presume si concluderà nel 2025, e quindi il raggiungimento di volumi produttivi pari a circa 8 milioni di tonnellate l’anno consentirà il totale impiego delle risorse». I sindacati in coro hanno detto che è impensabile legare il rientro di tutti i lavoratori semplicemente a una prospettiva di piano industriale che non poteva essere oggetto di confronto in sede di esame congiunto della cassa integrazione. Riaffiora, pertanto, il timore di esuberi strutturali.