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«Legge su collaboratori giustizia fondamentale contro mafia» parla il generale tarantino Tersigni

 
Marisa Ingrosso

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Marisa Ingrosso

«Legge su collaboratori giustizia fondamentale contro mafia» parla il generale tarantino Tersigni

L'alto ufficiale dei carabinieri è stato in prima linea nella Sicilia delle stragi

Venerdì 04 Giugno 2021, 12:18

«La legge sui collaboratori di giustizia è stata fondamentale, lo dicono i fatti». Il tarantino Alberto Tersigni, generale di Brigata dei Carabinieri, è stato in prima linea nella Sicilia delle stragi, in guerra per lustri, tra Caltanissetta e la Dia di Palermo. Da lunedì, dopo 37 anni di servizio, lascerà l’ufficio di comandante del reparto operativo del Comando provinciale di Genova.

«Facevo il corso di ufficiale di complemento, a Caserta, - dice - e si presentò un tenente colonnello dei Carabinieri e ci disse “guardate che potete finire il percorso di servizio di leva nei Carabinieri”. Andai e fu un amore improvviso e durato 37 anni. Durerà molto di più, oltre il servizio attivo».

A Potenza, poi la Sicilia.
«Quando mi chiamò il capo Ufficio del personale mi disse “abbiamo pensato a te per un incarico in zona di guerra”. Io, giovane capitano, chiesi se intendesse la Somalia. Lui rispose “no, peggio”. Era il 1992, c'erano appena state le stragi di Capaci e Via D’Amelio e io andavo a Caltanissetta».

Che Isola trovò?
«I siciliani stavano iniziando a prendere coscienza che bisognasse reagire e non far finta che la mafia non esistesse, come fu fatto anche quando c’era Falcone. C'era un’atmosfera di paura e ribellione. Era l’anno in cui stava nascendo, in embrione, la legge sui collaboratori di giustizia. Era stata istituita la Dia, furono creati il Dna e il Servizio centrale di protezione, a Roma, ma era in fase iniziale».

Il primo collaboratore?
«Ho trattato decine di collaboratori siciliani e cioè attività di riscontro e indagini sulle loro dichiarazioni. Almeno 6 o 7 non dico che li ho convinti io ma.. Ricordo con molta, come dire, partecipazione la famiglia Iannì di Gela. Non erano Cosa Nostra ma Stiddari. In famiglia c’era un capofamiglia e due figli, Marco e Simon, che era famoso per essere il killer più giovane della mafia gelese. Il primo omicidio lo aveva fatto a 12 anni. Presi contatti con il padre e poi, a seguire, vennero Marco e Simon».

Nel 2000, da Caltanissetta, viene trasferito al centro operativo della Direzione investigativa antimafia di Palermo. All'epoca era sposato?
«Ho conosciuto mia moglie nel 2006, in quegli anni lì ero solo».

Forse è stato un bene.
«Sì, sicuramente».

Che ne pensa della legge sui collaboratori?
«In quel momento fu fondamentale, lo dicono i fatti. Senza, tantissimi omicidi, decine e decine, non sarebbero stati scoperti e gli autori sarebbero rimasti sempre ignoti. Io posso solo dire che, per noi, la collaborazione è stata positiva. Chiaro che, davanti a un soggetto che si autoaccusa di decine di omicidi, da un punto di vista emotivo, dà da pensare. Ma dire che, di contro, non sia stata una idea di Falcone buona, sarebbe.... Forse va rivista, non lo so ma per noi in quel periodo storico è stata importante. Le collaborazioni fiorivano come le margherite. C’è stato un grosso incremento dal ‘93 in poi, collaborazioni importanti. Magari, per carità, non sempre era un pentimento sincero».

Invece Riggio?
«Riggio chi?»

Pietro.
«Ci sono più Riggio. Per esempio Riggio Calogero e Salvatore di Riesi. Salvatore ci ho messo tre incontri in carcere per convincerlo che la collaborazione era la soluzione migliore, aveva 30 omicidi come mandante».

Su Pietro Riggio lei è stato ascoltato dalla Corte d’Assisi di Appello di Palermo al processo sulla presunta trattativa Stato-mafia.
«Sì, con il gen. Angiolo Pellegrini (quando Tersigni era maggiore e il secondo colonnello, erano alla Dia, tra il ‘99 e il 2002; ndr)».

Lunedì, dopo le vostre dichiarazioni, il procuratore Giuseppe Fici ha detto che Riggio va rivalutato in quanto «confidente della Dia» e «infiltrato in Cosa Nostra».

«Io e il gen. Pellegrini non abbiamo mai negato di averlo come confidente. Non gli abbiamo chiesto di infiltrarsi perché non potevamo. Infiltrato mai. Ma gli abbiamo detto di ascoltare, attraverso le sue conoscenze, se aveva informazioni sulla localizzazione di Bernardo Provenzano.Poi, non portandoci il risultato sperato, abbiamo iniziato a diradare gli incontri. Ma in quel periodo ho fatto altre cose. Penso alla cattura di due latitanti uno di Favara, Focoso Joseph, che era uno del commando che uccise Guazzelli (il maresciallo Giuliano Guazzelli fu ammazzato ad Agrigento il 4 aprile 1992; ndr). Lo catturammo in Germania assieme al Bka, la Dia tedesca. Siamo stati bravi, fortunati. Era l'ultimo del commando, l'ultimo assassino di un carabiniere stroncato da 4 persone».

Molti altri nomi grossi della mafia sono finiti in cella grazie al generale tarantino, come il latitante Filippo La Rosa della famiglia di Michele Greco, che faceva parte del gruppo di fuoco di Ciaculli di cui faceva parte anche Scarpuzzedda, uno degli autori dell'omicidio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Ma l’intervista volge al termine.

Tersigni parla di «bilancio positivissimo» di una lunga carriera (è diventato generale lo scorso aprile). Ora è il tempo di tornare a casa, a Palermo. «Mia moglie – dice il tarantino – si chiama Stella Cavallo, originaria di Matera e cresciuta a Taranto. Vive a Palermo, è avvocato. Senza di me, bada da 4 anni ai nostri due bambini (la grande 13 e il maschietto 9). Il bimbo si chiama Carlo Alberto, in nome del generale Dalla Chiesa».

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