il siderurgico
La «ricetta» di Mittal: più soldi pubblici e meno dipendenti
Il futuro di Taranto: lo studio presentato al governo si riduce a una richiesta di ulteriori garanzie finanziarie, tagli di organico e di produzione
Sedici pagine, strettamente private e confidenziali, con tanto di diffida ai destinatari a renderle pubbliche come se non si trattasse di una vicenda che riguarda la vita e la salute di centinaia di migliaia di persone, corredate da uno studio della McKinsey sulle prospettive dell’acciaio in Europa.
La ricetta proposta da ArcelorMittal con la bozza di piano industriale 2020-2025 post covid inviata venerdì pomeriggio al Governo e ai commissari di Ilva in amministrazione straordinaria pare oggettivamente inaccettabile. Dalle slide proposte in inglese emerge un piano che consente da un lato alla multinazionale che gestisce il complesso aziendale ex Ilva dal novembre del 2018 di poter fare subito 3300 esuberi, a cui aggiungere i 1600 cassaintegrati in forza all’amministrazione straordinaria ai quali, contrariamente al pattuito, non sarà mai proposta l’assunzione e dall’altro richiede quasi un miliardo di euro di soldi pubblici tra bonus Covid, prestito garantito dalla Sace e la ricapitalizzazione a spese pubbliche della società veicolo Am InvestCo.
La Gazzetta ha potuto consultare il documento che l’amministratore delegato di ArcelorMittal Italia ha inviato al Governo. La multinazionale, in premessa mette le mani avanti, e fa sapere che si tratta di una bozza destinata esclusivamente alla discussione con i potenziali nuovi investitori azionari in Am InvestCo, ovvero lo Stato. Viene ricordato che il 4 marzo scorso Ami e Ilva in As hanno firmato un emendamento al contratto di locazione e acquisto per le acciaierie di Ilva per chiudere il contenzioso giudiziario dinanzi al tribunale di Milano, con accluso un nuovo piano industriale. Cinque giorni dopo, però, il Governo italiano ha imposto ai cittadini la quarantena in risposta alla crescente minaccia di Covid-19 e l’11 marzo l’Organizzazione mondiale della sanità ha classificato Covid-19 come pandemia globale. A causa del Coronavirus, dunque, Ami ha rivisto alcune delle ipotesi su cui si fondava quel piano industriale, basandosi sul lavoro di consulenza fatto da McKinsey. In pratica, la crisi dovuta al Covid-19 ha colpito l’edilizia e il settore automobulistico, due clienti dei produttori di acciaio; la domanda di acciaio in Europa è diminuita del 65% nel 2020 rispetto al 2019 e l’anno si chiuderà con un meno 25-30%. Un calo che si aggiungerà a quello dovuto alla crisi finanziaria pre-Covid che ha determinato in Europa una sovracapacità produttiva, tanto che secondo lo studio solo gli impianti più competitivi saranno in una posizione forte e sostenibile nel lungo termine.
L’anno scorso sono state fatte spedizioni per 5 milioni di tonnellate d’acciaio, quest’anno si dovrebbe scendere a 3,5 milioni.
Fatte queste premesse, Ami ha rivisto il piano aziendale, prevedendo nel periodo 2020-2025 una produzione di acciaio fino a 6 milioni di tonnellate l’anno, considerando l’obiettivo degli 8 milioni l’anno riesaminabile solo nel 2025 quando, e se, la domanda ritornerà ai livelli pre-Covid. Sul rifacimento dell’altoforno 5, il più grande d’Europa spento dal 2015, Ami prende 4 anni di tempo, valutando anche la possibilità di sostituirlo con la tecnologia a forno elettrico. Sul personale, i numeri secondo Ami vanno allineati all’obiettivo produttivo di 6 milioni di tonnellate nel periodo 2020-2025, scendendo così subito a 7.400 dipendenti diretti (rispetto ai 10.700 attuali). Come spiraglio viene lasciato quello del 2026, condizionato dalle prospettive del mercato che, in caso di produzione attestata a 8 milioni di tonnellate l’anno, potrebbe portare ad avere 10.700 unità come forza lavoro. Segno, in questo caso, che Ami lascerebbe al Governo la possibilità di gestire gli esuberi con ammortizzatori sociali sino al 2026.
Ami presenta un conto salato anche dal punto di vista economico, chiedendo, per finanziare il suo piano aziendale, un prestito di 600 milioni di euro, con garanzia statale; un mutuo ipotecario di 600 milioni di euro nel 2022, a rifinanziare il prestito di garanzia statale; una indennità di 200 milioni di euro conforme agli aiuti di stato tra danni causati dal Covid-19 e danni dovuti all’incidente mortale avvenuto al quarto sporgente nel luglio 2019; la conferma dei certificati verdi (diritti di CO2), 55 milioni dal programma di interventi finanziato da Invitalia per coprire le aree secondarie, migliorare i sistemi di aspirazione e l’impianto di trattamento di acque reflue. Ami è netta: i soldi pubblici sono fondamentali per aiutare a mitigare l'impatto del Covid-19 e creare un futuro sostenibile per l’Ilva come pilastro nel post rinascita economica pandemica. Nessun riferimento, infine, all’abolizione dello scudo penale, segno che le polemiche attorno ad esso erano puramente strumentali.
L’Ilva fino al 26 luglio del 2012, quando la magistratura sequestrò gli impianti di proprietà della famiglia Riva, e arrestò i dirigenti, contestando il disastro ambientale, aveva oltre 15mila dipendenti diretti e macinava utili su utili. Da allora ad oggi, gli impianti sono rimasti praticamente gli stessi visto che le varie Aia succedutesi nel tempo hanno goduto di lunghissime proroghe, a parte l’incompleta, e dunque ancora inefficace come si verifica a vista d’occhio, copertura dei parchi minerali; il processo Ambiente svenduto sembra avviarsi su un binario morto; ci sono migliaia di cassaintegrati in più che rischiano da un momento all’altro di diventare disoccupati. La domanda giusta non è se ne valeva la pena (i reati contestati erano e sono gravissimi, si è scoperto solo durante il dibattimento essere fondati su indagini spesso lacunose) ma se tutta la partita poteva essere gestita in maniera diversa e più rispettosa di operai e cittadini.