Per rafforzare resilienza e connessioni

Matera verso la gentilezza come grammatica civile

Mariateresa Cascino

Il 2025 scivola via portandosi dietro rumori, fratture, contrapposizioni sterili che producono più stanchezza che risultati. L’auspicio è allora quello di entrare nel 2026 coltivando la gentilezza con una cura quasi affettiva

Abbassa il cortisolo, migliora l’umore, rafforza la resilienza emotiva e crea connessioni più profonde. La gentilezza non è un ornamento del carattere, ma una forza trasformativa. E oggi, mentre Matera si prepara a essere Capitale Mediterranea del Dialogo e della Cultura 2026, diventa una responsabilità collettiva adottare la gentilezza come nuova grammatica di base. Il 2025 scivola via portandosi dietro rumori, fratture, contrapposizioni sterili che producono più stanchezza che risultati. L’auspicio è allora quello di entrare nel 2026 coltivando la gentilezza con una cura quasi affettiva, come si fa con ciò che sappiamo fragile e indispensabile insieme. Non per ingenuità, ma per lucidità. Per non inaridirsi, sarà indispensabile tenere a distanza i campioni della divisione, i dissociati, gli avvitati attorno al proprio ruolo, quelli dell’“io, io, io”, perennemente impegnati in una gara di autoconservazione più che di visione. La gentilezza, in questo senso, è anche un atto di discernimento tra chi ci conduce verso la tristezza sterile rispetto a chi ci accompagna verso la bellezza. Viviamo immersi nei conflitti, e vale la pena ricordare ciò che un saggio ha consegnato alla storia: “Poiché le guerre iniziano nella mente degli uomini, è nella mente degli uomini che le difese per la pace devono essere costruite”. Prima dei conflitti armati esistono infatti violenze più sottili: l’arroganza, la chiusura, il bisogno compulsivo di avere ragione, l’incapacità di riconoscere l’alterità come legittima. È qui che la gentilezza diventa decisiva, perché agisce prima delle parole dure, dei gesti coercitivi, delle fratture irreparabili. Se la guerra nasce nella mente, è perché nella mente attecchiscono paura, sospetto, ego ipertrofico e senso di minaccia. La gentilezza, al contrario, educa il pensiero all’empatia, al rispetto, alla complessità. Non appartiene ai deboli: appartiene ai forti. È generativa. Disinnesca il nemico prima ancora che venga inventato. Essere gentili significa allenarsi a non reagire automaticamente, a non ridurre l’altro a un avversario, a non trasformare la differenza in pericolo. In una comunità – e ancor più in una città chiamata a incarnare il dialogo come orizzonte – la gentilezza diventa grammatica civile. Costruisce difese non armate ma solidissime: fiducia, coesione, responsabilità condivisa. Dove la gentilezza è strutturata, anche la guerra fatta di parole, ruoli, potere e umiliazioni trova poco spazio per attecchire. Coltivarla come competenza collettiva, e non come semplice sentimento, significa costruire futuro. Perché una mente gentile è una mente disarmata, e una comunità di menti disarmate è una comunità che sa andare lontano. Allora, buon futuro e gentile anno nuovo.

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