lessico meridionale
Santa Lucia, Trump e un presepe diverso
Parlo di solstizi, insomma. Se è vero che già i Romani e, prima di loro, Greci e Italici celebravano il «Sol Invictus», il Sole divino e vittorioso in eterno nel periodo del solstizio che, appunto, il tredici dicembre, diesnatalis di Santa Lucia, prende avvio.
Come ogni anno, il 13 di dicembre ho dato di piglio al Presepio. Così si usa al sud, nel rispetto di una data tradizionale insostituibile.
Il 13 dicembre la Chiesa ricorda Santa Lucia, martire Siracusana a cui la religiosità popolare accredita la tutela degli occhi e della vista così come è significato dall’immagine della bella Signora che reca in una mano la palma, simbolo del martirio, e, nell’altra, un piattino dorato in cui sembrano galleggiare nell’aria due splendidi occhi azzurri. Il mistico «guignol» sbeffeggia i carnefici vanificando la sanguinosa prodezza dell’accecamento. È da sapere che, una volta orbata, Lucia riottenne i suoi occhi, più belli e lucenti «che pria» a maggior gloria di Dio e a confondere i suoi e nostri nemici. Questa è la figurina che splende nell’agiografia popolare. Ma basta a determinare la data dell’inizio della costruzione del presepio? No, perché dobbiamo rifarci alla tradizione più antica e considerare che a Lucia sono attribuite credenziali di culti precedenti alla sua sacrosanta militanza e riconducibili al settore, diciamo così, meteorologico e stagionale.
Parlo di solstizi, insomma. Se è vero che già i Romani e, prima di loro, Greci e Italici celebravano il «Sol Invictus», il Sole divino e vittorioso in eterno nel periodo del solstizio che, appunto, il tredici dicembre, diesnatalis di Santa Lucia, prende avvio.
E se Domineddio ha deciso di generare Suo Figlio proprio nel tempo del sole rinascente è segno buono ed eloquente che rafforza nell’umanità dolente e sgangherata la consapevolezza che la metafora della luce che torna a crescere e dilatarsi si radica nel bisogno estremo che avevamo in quel lontano, come in questo, Natale, di certezze e chiarori non effimeri che escludano dalla ostinata malvagità dei potenti che nel Presepe non sarebbero accettati.
Salvo che non meritino il perdono, previo pentimento che li porti a imporre la pace al mondo. E nacque San Francesco.
Mia madre diceva che il 13 dicembre, ieri per chi legge, le giornate di sole si allungano di un passo di gallina e, di certo, lo dicevano sua madre prima di lei e la madre di sua madre e via, così, inerpicandosi su per li rami del matriarcato sentenzioso.
Io, bambino, mi arruffavo a contarli quei passi e decisi che occorresse scegliere una gallina decisa e robusta in grado di fare un passo in più al giorno (uno, due, tre, quattro) o, addirittura, capace di contare in progressione geometrica (uno, due, quattro, otto e così via) per arrivare puntuale e stremata all’appuntamento con il solstizio d’estate, quando il sole spadroneggia per una lunghissima giornata.
Intanto, però, in attesa di quelle caldane, ho messo in opera il presepio. Quest’anno l’assetto strutturale è pianeggiante e solo qua e là collinoso con un laghetto e inevitabile fontana circondata da palme noncuranti della presenza, poco più in là, di abeti dolomitici che non ci azzeccano ma fanno tanta scena. Non manca niente in un tripudio sincretistico di figure d’ogni razza e provenienza: tutta la gamma dei pastori, da quello tradizionale con pecore e abbacchio regolamentare sulle spalle, al porcaro con maialini e scrofa premurosa, alla donna con formaggi e caciocavalli, allo zampognaro obbligato che si mescola allo scrivano ottocentesco, al venditore di libri usati, al fiaccheraio e al cantiniere.
Da un pezzo ho esiliato il cacciatore dietro un albero e gli ho messo un fiore nel fucile. Ora non spara più agli uccellini e io gliene ho messi tre sulle spalle. La lavandaia troneggia vicino alla grotta anche se esibisce una generosa scollatura che mostra grazie di Dio a chi si avvicina alla Luce del mondo. Sono sicuro che Maria non rinnegherà la pia governante. Nel presepio non sono graditi i bacchettoni.
Per questo, come ribadisco tutti gli anni nel «pezzo» natalizio ribadisco la necessità massima di assumere in pianta stabile il pastore dei pastori: «u’ sckandat». Letteralmente, nel dialetto nostro, sta per «lo spaventato». È, costui, un singolare visitatore che staziona davanti alla grotta fatidica con un’espressione sgomenta, orante, con gli occhi sbarrati, le braccia spalancate e la bocca semichiusa in un fonema inintelligibile, se non dai puri di cuore, che sembra esprimere l’atterrita gioia della salvazione annunciata. Non porta niente, né caciotte, né agnellini, né vino, né uova, né, tanto meno stoffe preziose o spezie: «u sckandat» (lo spaventato) porta solo il suo stupore di fede e la sua letizia di speranza. Di tutti i pastori è il più legittimato ad implorare il bambino Gesù. Questo Natale lo «spaventato» porta anche il dolore di un popolo che implora il Dio nascente di aiutarlo a mantenere la sua libertà e a ottenere la pace: gli Ucraini.
Credo che Trump il Presidente, tanto per fantasticare, allo stato del suo agire, verrebbe allontanato dalla sacra Grotta e convinto dai pastori, quegli europei in testa, a non restare lontano dalla santa Famiglia e a impegnarsi col despota russo per convincerlo a farsi perdonare.