lessico meridionale
La ricetta per... il medico? Sobrietà e prevenzione
Fra ammonimenti degli antichi e leggende orientali: in Cina si narra che il paziente pagasse il dottore ogni giorno tranne quando si ammalava: in quel caso, stop al salario
«Medice, cura te ipsum» ammonivano gli antichi. E in parecchi. Prima di arrivare a leggere la sentenza nel Vangelo di Luca che riprende un proverbio ebraico, prendiamo atto che, già nel Prometeo di Eschilo, si ritrova il motivo di un medico che «cade», egli stesso, ammalato. E così anche in Euripide: «Medico degli altri, ma, per quanto riguarda sé stesso, soffre di troppe ulcere». Poi Sant’Ambrogio raccomanda a saggi e sapienti di «accudirsi», santo e ottimista pragmatismo, oltre che prendersi cura degli altri. Come, del resto, impone il sacro verbo e allude al «prossimo tuo». Se discettiamo sulla identità del «prossimo tuo», incappiamo nella sacra raccomandazione che prescinde dalla identità e il «prossimo tuo» è il prossimo di tutti noi. E, ancor più, per coloro che, tra di noi, ne hanno fatto dottrina dell’amore per gli altri. Si chiama Medicina.
Naturalmente il medico è il sapiente dei sapienti, in un mondo in cui l’orizzonte della percezione include il «breve errore» della vita come fatalmente acciaccato e non meritevole di particolari ostinazioni terapeutiche, ma, comunque, bisognoso dei rigori della scienza che portavano ad una considerazione totalizzante dell’essere umano che non stava soltanto «nel mondo», ma stava «al mondo». Il sapiente, quindi, non poteva esentarsi da conoscenze e competenze mediche e sanitarie e, azzardo, filosofiche, come noi le concepiamo. Noi moderni e, non sempre, assidui nella lettura dei padri e dei dottori della Chiesa e dei saggi comunque. E, dunque, comunque, l’opinione dei sapienti. E il sapiente aveva l’obbligo, anche in quanto medico, di prendersi cura del suo corpo, della sua mente e, per Sant’Ambrogio, della sua anima.
Da tempo, del resto, al saggio era stato impartito il socratico consiglio di conoscere sé stesso. Nella modernità specialistica che parcellizza saperi, tecniche, nel senso aristotelico, e arti e professioni, ci alleggeriamo la coscienza raccomandando ai medici di salvare la propria salute e di prendersene cura con particolare solerzia, forse per affermare, implicitamente, le proprie salutari competenze messe alla prova di uno che è uno di noi. Da Ippocrate e, forse, anche prima.
Insomma, sembra sussurrare la gente, la gente che si pasce di convincimenti degli spot delle propagande pubblicitarie: «Se quel tale che fa il medico va giudicato da come sta bene in salute, nella ‘sua’ salute, dobbiamo decidere di scritturarlo subito e di farci dedicare un in intero ricettario. Farà star bene anche noi».
Insomma, quel medico è la migliore promozione di sé stesso. Sembra pensare «la gente». Non era, precisamente quello che sentenziavano gli antichi, ma è il segno dei tempi. Del resto, non c’è da meravigliarsi visto che, anche per l’amministrazione dello Stato, per la salute della Repubblica, vigono alcuni pregiudizi allarmanti che affermano essere il successo privato negli affari e nella vita personale la migliore garanzia della rettitudine nel proficuo condursi nella gestione della cosa pubblica da parte dei fortunati manager. Niente di più opinabile, naturalmente, non essendo lo Stato un’azienda e la Patria una società per azioni quotata in Borsa.
Così è per il medico. Doveroso e scontato è che curi e protegga anche, e soprattutto, la creatura umana che è sotto il suo camice, che tuteli la persona che lui è. Meno interessante è che esibisca il successo, la fama, l’affermazione accademica, sociale o mondana. Meno interessante, ma il suo curriculum merita, comunque, un’attenta lettura. Si può star bene in salute anche in sobrietà e riservatezza. Anzi, la sobrietà è consigliata sul ricettario del dottore, ma anche per il dottore. E bisogna dire che di queste raccomandazioni i nostri medici non hanno bisogno. Per di più, da quel che so, anche il medico va dal medico. E questo è il segno che ognuno di loro si fida della categoria. E se si fidano, loro, dei propri simili e dei colleghi, ci possiamo, e dobbiamo, fidare anche noi. Il moderno nostro amico medico sentenzia, oggi, «curat se ipsum», affidandosi ad un altro medico, bravo e coscienzioso.
Nell’oriente cinese, si narra che, anticamente, avessero un sistema assai efficace, pur se duramente empirico e vagamente ricattatorio, per convincere i medici ad essere attenti, previdenti e solerti. Il paziente non indigente che poteva permetterselo, pagava il salario al dottore sempre, ogni giorno, anche se non lo incontrava in visite o ambulatori. Ed entrambi, medico e paziente, tiravano a campare felici e contenti. E, diciamo «appagati». Fino alla prima indisposizione, al primo malessere, alla prima malattia del paziente pagante. A questo punto, il salario veniva sospeso e il medico costretto ad avere tutto l’interesse a curare e guarire il suo datore di lavoro. E si prodigava con fremente interesse. Non solo, ma, sicuramente, la prevenzione trionfava in cima ai suoi pensieri. Anche quello era un modo per suggerire «Medice cura te ipsum». Curando molto bene gli altri.