lessico meridionale

Mozzarella, basilico e pane di Altamura

Michele Mirabella

Mentre osservo lacrimare il perfetto formaggio, m’interrogo sulle sue origini, grato e reverente al suo inventore

Pomeriggi or sono, quello del 17 giugno scorso, ho guardato la Puglia. Il treno su cui viaggiavo da Roma, ha inflitto due ore di un ritardo mostruoso, arrancando su motivazioni solo intuibili e, soprattutto, non comunicate. Dovevo arrivare a Foggia. Le più di due ore di ritardo, mi hanno reso spaesato, nonostante un paio di buoni libri che avevo con me. E, mentre l’amico che mi attendeva lamentava scuse, mi venne in mente la vergognosa questione della linea ferroviaria diretta Napoli-Foggia-Bari. Lo racconto solo perché vorrei giustizia di questo sgarbo offensivo per la mia terra. Al mio ritorno, per riappacificarmi con lei, con amici di schiatta pugliese cui ho narrato della vergognosa disavventura ferroviaria, abbiamo «inventato» l’invenzione delle orecchiette.

Prevale la tesi del lavoro con «intrattieni», con comodo di conversazione e ginnastica delle mani. E, questo, mi fa venire in mente l’erma marmorea del poeta. Si, lo so, sembra impossibile, ma vi spiego. Ugo Foscolo sosteneva con piglio tutto suo che gl’Italiani andassero esortati alle storie, altri hanno ritenuto che, piuttosto andassero invitati ai lavacri, Garibaldi, con la leggendaria capacità di sintesi, nel suo discorso per commentare il laticlavio, invitò i suoi irredenti connazionali semplicemente ad «esser seri». Mi accodo e mi permetto di sospingere gl’Italiani alle etimologie. Esercizio, questo che può sembra umile, ma che considero utilissimo. Può attivare lodevoli riappropriazioni e restaurazioni di fiori d’orgoglio nazionale. Ho sotto gli occhi l’ottimo Dizionario della Lingua italiana della Zanichelli, squadernato alla pagina che reca la parola mozzarella.

Ho fatto la ricerca per via di della norma con la quale veniamo rassicurati della sopravvivenza della mozzarella genuina fatta all’antica italiana che, sola, merita il marchio d’autenticità sia che faccia fiorire in forma di formaggio sublime il latte di bufala (Campania e Lazio) sia che germogli sul fiore del latte di vaccina (Puglia, mia meravigliosa Puglia, soprattutto).

È una buona notizia e ci piacque dare atto ai nostri politici che, per una volta, non si fecero sopraffare dagli interessi e dallo sciovinismo gastronomici dei nostri concittadini europei i quali troppe volte hanno attentato alla cucina nostra, poco interessati, evidentemente, al salotto buono. La mozzarella è salva. Si potrà chiamare così solo quella fatta con l’antica ricetta. S’ingegnino i casari sprovvisti del miracolo «savoir faire» e che si vogliono ostinare ad usare siero o succedanei del latte a trovare altri nomi per le imitazioni, ma giù le mani da «mozzarella».

Ero a questo punto con la riflessione, quando ho deciso di dar di piglio alla preparazione della mia merenda del sabato che sostituisce l’insopportabile pranzo delle quattordici. Anche l’ora del desinare la dice lunga sulle mie origini. Dunque vediamo: pomodoretto, sale, profumatissimo e perfetto olio di Bitonto, mozzarella tagliata a fette e profumatissimo basilico a foglia piccola, quello del pesto, per intenderci. Mentre osservo lacrimare il perfetto formaggio m’interrogo sulle sue origini per dedicare al suo inventore un pensiero grato e reverente. Decido che per tanto portento non deve essere stato sufficiente un solo casaro geniale e lungimirante. Deve esserci stata l’opera di un popolo intero. Come taluni sostengono per Iliade e Odissea: non un solo Omero, ma un’intera nazione di poeti, più generazioni d’aedi, folle di cantori. Insomma, dopo la «questione omerica» non è trascurabile una «questione della mozzarella». Meglio prepararsi e ciò spiega il mio affaccendarmi tra le pagine dell’amico vocabolario. Leggo e prelevo.

Dopo la definizione del significato apprendo che la parola compare per la prima volta in un testo scritto nel 1570 in Opera di tale B. Scappi: «Capi di latte, butirro fresco, ricotte fiorite, mozzarelle fresche e neve di latte». Che meraviglia! Ma andiamo all’etimologia. Le congetture: da mozzare «perché cacioline fatte con smozzature di cacio». Altri sostiene «Dall’esser, appunto, legato a mezzo (il formaggio) e quasi mozzato».

Opterei per la seconda ipotesi, causa di certe infantili memorie presepiali in cui compaiono compunte pastorelle recanti alla Grotta Santa, buffe palle incordate da legacci che mi erano indicate come le mozzarelle di allora. L’allora di Gesù. Pensavo, bambino, che se Lui, il Salvatore, aveva anche i gusti a nostra somiglianza, avrebbe gradito avere anche i pomodoretti. A tutti sconosciuti, il Signore, forse se li aspettava dai Re Magi che venivano dall’Oriente ricco di novità e primizie storiche. Quanto al basilico, la foglia dei re, non ne sarà mancato tra gli omaggi delle genti a Lui, Re dei Re, per fare la cialda o frisa o panzanella.

E qui, ecco arrivare trionfalmente il, il maiuscolo Pane di Altamura. Benedetto tu sia dovunque nel mondo. Noi italiani vorremmo esportare la nostra saggia curiosità e conoscerlo, il mondo e da lui farci conoscere. Ma in Puglia non abbiamo treni che si rispettino.

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