lessico meridionale
Anglismi e retorica? Torniamo all’italiano
I persecutori della lingua sono pericolosi da sempre: ecco un ventaglio di esempi e di ricordi
«Prestatemi orecchio», dice il nobile Antonio appressandosi al cadavere di Cesare ai Rostri per cominciare ad arringare la folla ondivaga dei Quiriti e dei passanti nel tentativo (riuscito) di capovolgere le sorti della Repubblica e trasformarne l’indole e, dunque, vanificare la congiura di Bruto e Cassio. E prosegue il fido Antonio nella splendida prosa Shakespeariana: «Sono venuto a seppellire Cesare, non a farne l’elogio funebre».La celeberrima orazione, cavallo di battaglia dei provini e delle audizioni degli attori debuttanti, resta un esempio di grande teatro e di oratoria politica. Shakespeare conosceva i dettami della scuola di eloquenza alessandrina? Si direbbe di sì.
Ma quel che importa è la magnificenza della prosa e la qualità della tecnica oratoria. Rinvio i nostri politici contendenti nell’inquieta, noiosa, eterna questione polemica elettorale ad una «full immersion» (così accontentiamo quelli che hanno viaggiato) nella perorazione di Marcantonio. Eh sì, perché i nostrani litigi parlamentari forniscono un campionario pittoresco di logorante maltrattamento dell’Italiano. E poi ci si lamenta se in ambito diplomatico europeo la nostra lingua, la cancellano dalle procedure.
La povertà idiomatica non è che appesantita dagli anglismi e dalla retorica di partole di sontuosa inutilità. Valga per tutte la logorata «narrazione» detta di qualsiasi sciocchezza. Ho sentito praticare con disprezzo la locuzione «il teatrino della politica». Il tentativo è di screditare la politica comparandola al teatro. Ora va ricordato a quei tangheri che il teatro, anche quello piccolo delle marionette o dei burattini, è una cosa bella e serissima e che, se mai, si potrebbe tra noi, gente orgogliosa di teatro, offenderci a vicenda dandoci del politicante. Il caso somiglia all’uso del termine buffone per insultare. I buffoni sono gente buona e generosa, benemeriti lavoratori che si prodigano per ingentilire il corruccio degli adulti e far sorridere i bambini. Non sono imbrogli in mala fede e, se vestono la giubba, lo fanno per tirare a campare onestamente, non per ingannare l’onorevole pubblico.
Ricordo che, anni fa, un amministratore, durante il programma, utile e interessante, «Mi manda Rai Tre», stretto nell’angolo di sue responsabilità truffaldine di soperchierie di pittoresca varietà a danno d’ingenui cittadini, accusò il collega di «fare un circo equestre» volendo intendere che aveva allestito un grande imbroglio mediatico ai suoi danni. I circensi dovrebbero aggiungere la loro alle denunce che già pendono sulla testa di quel tale. Per di più, mi parve di udire in uno delle sue reiterate accuse, «ciclo equestre». E qui il litigio con le parole divenne esilarante per il pasticcio che convocava naturali mensili fatiche femminili, insieme a cavallerizzi e ciclisti. Io arrivo a diffidare di chi osteggia i congiuntivi e litiga con la sintassi. Temo l’azione di colui che si vanta di «essere di poche parole» e dimentica di aggiungere che molte non ne conosce. Dubito della condotta di chi parla a vanvera o di chi incatena lemmi e locuzioni a casaccio al ceppo della propria opinione.
«Chi non perdona al linguaggio non perdona alla cosa»: la sentenza è di Karl Kraus, corrosivo scrittore austriaco che lamentò in un memorabile dramma (Gli ultimi giorni dell’umanità, 1919) la decadenza del mondo austroungarico. Osservatore caustico e appassionato del suo tempo insieme sfavillante e corrucciato, Kraus individuò nella lingua l’evidenza del mutare dei caratteri, dei costumi e del faticoso convivere degli uomini, il complesso eloquente ed espressivo d’informazioni che segnalano benefici e contraddizioni del racconto che chiamiamo Storia sin dai primi, esitanti passi della civiltà. E alla lingua e alle parole dedicò un saggio (Die Sprache, 1937) ancora interessante. Fate caso alle date, prima di far caso alle parole: 1919 e 1937. Subito dopo e subito prima di due incendi che avrebbero cambiato per sempre l’occidente e il mondo. E, quindi, facciamo caso alle parole che possono fiammeggiare ed esplodere come bombe. Qualche volta si arrangiano a scoppiettare come allarmanti petardi.
Si dice, con stanco luogo comune, di preferire i fatti alle parole credendo, così, di dimostrare concretezza (è sempre una virtù? Ne siamo sicuri?) e operosa volontà. Sin dal 1578 un filologo fiammingo, Meurier, scrisse una castroneria conviviale che denunciava un assortimento di pregiudizi epocale: «I fatti sono maschi, femmine sono le parole». A me piace molto che siano femmine. Seneca sosteneva che i fatti devono provare la bontà delle parole (Verba rebus proba). Perché, e i Latini si sono affannati, spesso inutilmente, a trasmettercelo: le parole sono importanti.
Ce n’accorgiamo quando vengono malintese e maltrattate. Ecco perché Kraus era intransigente con i persecutori della lingua. Disse: «Una città dove gli uomini, parlando di una vergine che non lo è più, usano l’espressione “averla data via”, merita di essere rasa al suolo».