lessico meridionale

Quando l’ipocondria ci tende un agguato

Michele Mirabella

Una volta si conosceva meglio la via delle Indie che la dislocazione delle «isole» del pancreas o delle tonsille.

In quel caposaldo del garbo umoristico inglese che è «Tre uomini in barca», si legge una celebre e inquieta constatazione di J. K Jerome che racconta una pagina di vita. Dopo aver spigolato in una cospicua enciclopedia della medicina incontrata nella capatina in biblioteca dovuta all’attesa di una signora, ammette: «The onlymalady I could conclude I hadnotgotwashousemaid’sknee». Nella traduzione italiana: «Arrivai alla conclusione che la sola malattia che non avevo era il “Ginocchio della lavandaia”».

Scrutinando per la prima volta, le confessioni del viaggio fluviale di Jerome, il lettore s’imbatte in questa patologia, il «Ginocchio della lavandaia» e ride perché, contestualmente, scopre di aver provato esattamente le stesse emozioni dello scrittore ipocondriaco, in molte occasioni, leggendo libri di divulgazione o sfogliando compendi di medicina. Il sollievo della scoperta di essere esente dal «Ginocchio della lavandaia» non rimargina la piaga della paura, anzi, della certezza, di essere afflitto da tutto il lessico della patologia conosciuta da Ippocrate in poi. E sente, insistente, la convinzione che, se siamo stati risparmiati dal «ginocchio della lavandaia», è solo perché non siamo lavandaie, noi maschi. Che se fossimo femmine, nonostante l’emancipazione sociale e culturale, la raggiunta parità dei sessi e degli impieghi, forse dovremmo consultare il medico e mostrargli le gambe. L’ipocondria non ha quote rosa. La malattia delle malattie, l’ipocondria, è tanto più aggressiva, quanto più crediamo di conoscere la medicina, perché si nutre del nostro sapere se è disordinato. È parassita di questo. Sta lì, quieta, silente e mite finché non la provochiamo. Poi ci sfida e punge: appena la nostra curiosità ci spinge ad informarci, tende l’agguato e colpisce inondandoci di dubbi, paure, insonni sospetti, sindromi depressive. Come fa, l’ipocondria, quali sono le sue armi? Quelle di cui la dotiamo: le nostre lacune e la nostra superficialità. L’informazione deve essere assennata, rigorosa. Col tempo, esauriente. Altrimenti lasciamo perdere e leggiamo i romanzi o le poesie. Quelli e queste scatenano, talora, altri tipi di reazioni somiglianti agli effetti dell’ipocondria, ma colpiscono zone, per così dire, spirituali e, in questi casi, ci sono rimedi efficaci come la critica letteraria.

«Dove c’è amore per l’arte medica c’è amore per l’uomo», diceva Ippocrate, (460 a.C.), colui che studiò medicina, retorica e filosofia. Non è difficile trovare un’affinità tra medicina e letteratura, due arti che hanno come oggetto di studio l’uomo. Uomo inteso come unicum di anima e corpo, di intelletto e psiche. Per queste due arti possiamo parlare di una corrispondenza biunivoca perché si occupano di due parti dell’uomo spesso considerate inscindibili.

Del resto, come diceva lo storico Cattaneo nell’ottocento: «La malattia mette a nudo le verità dell’anima» e il medico, come il poeta, incontra l’uomo nel momento della debolezza, della fragilità, della solitudine, della paura e viene a contatto con queste verità. Il connubio medicina-letteratura risponde quindi a una stessa vocazione che ha le sue radici nell’amore per l’uomo. Con prudenza e una buona guida, perché, a volte, con salvifiche stroncature, ci si salva da cupe constatazioni esistenziali istigate da pessimi autori e esausti verseggiatori. Faremmo meglio, allora, ad andare in gita fuori porta. Il nostro corpo è diventato un territorio da conoscere, una specie di geografia cui per secoli abbiamo dedicato poco tempo, un’attenzione solo egoisticamente prudente e apprensioni personali, ma scarsa intenzione realmente conoscitiva, lo andiamo scoprendo, nel tempo moderno, con interesse e curiosità.

Una volta si conosceva meglio la via delle Indie che la dislocazione delle «isole» del pancreas o delle tonsille. Negli stessi anni in cui coraggiosi capitani e impavidi liberi pensatori partivano per viaggi reali per mare e terre e avventure logiche del pensiero, attraversando speculazioni e sfidando dogmatismi, la gente comune poco o pochissimo sapeva di fisiologia e patologia, dei tessuti, dei nervi, della circolazione e delle molte funzioni meravigliose del proprio corpo. Ed è singolare, e fa riflettere, che negli anni della scrittura del «Saggiatore», (1624), in cui si gettano le basi, da quel momento, irrinunciabili, del metodo sperimentale, la conoscenza dell’anatomia umana resti una faccenda riservata agli scienziati e al cerusico, se andava bene. La lavandaia del tempo di Galileo era esente da conoscenze rigorose e dal «ginocchio eponimo e dolente», ma, anche, da malattie immaginarie che, invece, assillavano l’Argante di Molière che era curioso, ma avventato lettore di manuali per cerusici. Leggiamo e studiamo, ma avvalendoci della guida preziosa del medico di famiglia. Eviteremo, così, di assillarlo solo quando ne abbiamo bisogno per calmare l’incubo dell’ipocondria. Ogni tanto facciamo due chiacchiere. E una passeggiata. Magari un giro in barca. Faranno bene anche a lui.

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