lessico meridionale

La mia prima «500»... con un etto di cambiali

Michele Mirabella

I ricordi del passato: la libertà di un’auto, il plaid e i contorsionismi. Oggi, la cupa amarezza dei dazi

Era l’erede della Topolino ed era grigio topo, con le portiere che si aprivano verso la direzione di marcia e una piccola radio scassata: un’auto Fiat 500. Non era scassata solo la radio, era scassata tutta. L’avevo comprata da un furbacchione che me l’aveva rifilata per un etto di cambiali. Mio padre andò su tutte le furie. La parola «cambiale», per la gente dabbene di quei tempi, era sinonima urticante di vergogna. Come avevo potuto coprirmi di disonore indebitandomi? Ma io, dell’auto, avevo bisogno: avrei fatto sacrifici e avrei pagato le cambiali. Me l’ero comprata, la «500», per emanciparmi dal treno della Sud-Est. Non avevo nulla contro i treni, ma quello che mi serviva partiva da Bari alle 5.25. Arrivava a Locorotondo in due ore e mi scaricava ad un miglio dalla Scuola Media dove facevo il supplente. Le lezioni cominciavano alle 8: decisione feroce dettata da qualche vecchio preside insonne.

Anno 1966. Avevo 22 anni ed ero un inesperto professorino di Lettere. La dura corvée mi costringeva ad alzarmi alle 4.30. Tornavo affranto alle 15.30 e svenivo sul divano, prima di mettermi a studiare per gli esami di Storia romana o Filosofia teoretica rinviati troppe volte. Erano tempi accademici in cui non si scusavano facilmente lacune, anche dovute al lavoro degli studenti o alla loro passione per il teatro che, nel mio caso, divorava tanto tempo. Il termine «fuoricorso» era vergognoso e parente di «cambiale». Solo scavezzacolli ricchi e figli di papà se n’ornavano con sicumera. La flessibilità nella seconda metà degli strabilianti anni Sessanta era obbligatoria. Ma gli esami pure. Basta. Comprai dal furbacchione la «Fiat 500» grigio topo scassata. Dopo pochi giorni la vendetti ai ferri vecchi. Era talmente scassata che non rimase in carreggiata, per via della tenuta di strada approssimativa, e finì in un fosso con me dentro che sono ancora qui, per fortuna, a raccontarlo. Restava quell’etto di cambiali da onorare e un ferraccio grigio topo. Burbero, e buono, mio padre intervenne con un’onerosa trattativa: liquidò il creditore esoso, permutò il rottame e comprò un’auto nuova. Dandomi le chiavi sentenziò che avrei dovuto guadagnarmela e pagargliela. A rate. Era una bella «Fiat 500» nuova fiammante, bianca con gli interni azzurri. Aveva un motore portentoso e irriducibile. E una radio che funzionava. Fu amore a prima vista e fu anche sonno in più. Potevo alzarmi alle sei e percorrere la bella strada litoranea in un’ora o poco più. Quell’utilitaria significò l’emancipazione, la libertà di movimento, una briciola di gioia quotidiana, la comodità in più che agevola il vivere. I miei coetanei sanno quello che dico e se parlo di comodità, sanno anche che alludo alle riservate e minuscole felicità di amori travolgenti consumati in quell’angusta alcova dove in tanti hanno sperimentato soavi contorsionismi e slanci sentimentali mai dopo ritrovati in alloggiamenti più confortevoli. In tanti e tante, innamorati, abbiamo fatto pratica di virtuosismi ginnici e di astuzie meccaniche. E sì, la mia «Fiat 500 F» non aveva ancora i cosiddetti «sedili spallabili», lusso sibaritico raggiunto, più tardi, dalla versione L. Fu studiata una leva del cambio corta opzionale e fu praticata l’adozione del Plaid messicano multiuso: lo fornivano solo i rivenditori d’accessori d’auto. Capitava anche di veder uscire da una «500» quattro persone di stazza robusta. Oggi sembra inconcepibile, ma l’Italia di allora era abituata a dividere e condividere.

Quell’auto irripetibile fu una conquista straordinaria e non solo meccanica. Era il 1966. Fu quello l’anno in cui Gianni Agnelli diventò il Presidente della Fiat e anche quello in cui arrivai quasi a finire i miei esami all’Università. Fu quello l’anno delle mie prime vere fatiche teatrali e fu quello l’anno in cui imparai da mio padre a non far debiti. Per inciso, lui non pretese mai più quelle 515.000 lire, tanto costava la «Fiat 500». Ma quando me lo disse mi avvertì di stare attento per il futuro perché lui «non era Gianni Agnelli». A me non dispiacque allora e ancor meno mi dispiace oggi, ma, e mio padre sarebbe d’accordo, a Lui, a Gianni Agnelli voglio dedicare questo ricordo. L’avvocato che aveva costruito la collaborazione con gli USA troverebbe l’attuale politica economica americana stupida, inutilmente vessatoria e frutto dell’autoreferenziale progetto egemonico planetario, assurdo, degli USA. L’attuale amministrazione americana ha paura della fantasia che, se pur con difficoltà, aveva trovato il posto nella vita quotidiana degli abitanti del pianeta, statunitensi compresi. E, oggi, anche con il lavoro, per un motore a scoppio innocuo. E si isola cupamente, con rapacità, proprio quando si lavora per salvare il pianeta dallo scoppio del motore. A pensarci, era giusto che l’erede della Topolino, una volenterosa emigrante, andasse nel paese dove Mickey Mouse è nato. Ma credo che, oggi, Topolino voglia emigrare in Europa. Spero che l’Europa possa accoglierlo per metterlo in salvo dalla cupa amarezza.

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