Lessico meridionale

Come tutti i bambini anch’io ero narciso

Michele Mirabella

L’attesa della fatidica domanda «Cosa vuoi fare da grande?» mentre scrutavo i décolleté

Come tutti i bambini ero «narciso». Freud parte dal presupposto che la mente del neonato è narcisistica: Narciso, il giovinetto ambiguo che, pago di sé, respinge tutti e diverrà il fiore tossico dai bei petali, è il mito che, più d’altri, riguarda gli esseri umani. Si nasce narcisisti e il costo che si paga, per lasciare questa dimensione, nel corso dello sviluppo personale, è alto.

A me, non piacevano, infatti, gli ammennicoli e le salivose piaggerie dei conoscenti e di certo lontano parentado, le svenevolezze e gli sbaciucchiamenti che ostacolavo con fughe e urla rifugiandomi dietro le gonne di mia madre. Ricordo i suoi chiffon estivi profumati di gardenia che ancora m’istigano a perdermi in dolcezze e rimpianti. Mamma era elegante. Al contrario, molti aliti di visitatori salottieri della mia bella, aperta, famigliola erano micidiali di grevità maldigerite, aglio, soprattutto. Alle carezze, ai bacetti, preferivo la conversazione. Però, come dicevo, ero «narciso», e mi compiacevo con sussiego dei segni convenzionali e dei segreti ammiccamenti di mio padre e di zii e zie che vertevano sulla constatazione che io ero intelligente. Facevo finta di niente, dando a intendere che «non me ne accorgevo, non lo facevo apposta, non era merito mio». La conversazione che preferivo doveva essere, è ovvio per un narciso, autoreferenziale. E, come ogni narciso, vanitoso E amavo che si parlasse di me, meglio se parlavano di me a me. L’incipit preferito era: «Cosa vuoi fare da grande?». Sfido chiunque a non ammettere che, quando sono stati bambini, hanno amato questa domanda che consentiva di sognare senza sforzo, di progettare liberamente un futuro roseo e «pieno di voli» come la bella aurora del poeta. Io, particolarmente, fremevo nell’attesa che qualcuno, meglio se in un bel salotto affollato di signore che sorbivano con nonchalance il thé biondo al punto giusto di mia madre, gustando (così dicevano, «gustando») soavi pasticcini alle mandorle, mi indirizzasse la domanda. «Cosa vuoi fare da grande?» con le varianti del burbero e immancabile zio prete «Cosa farà il nostro Michele da grande» e «Chi sa che grandi cose sogna di fare il nostro ragazzo? Avanti, racconta» della zia sognatrice. Io prendevo tempo, guardavo dritto in faccia l’interrogante, poi sbirciavo in panoramica i bei décolletés delle vicine giovani o delle graziose zie (mamma diceva che avevo lo sguardo indisponente) e buttavo lì: «L’astronomo».

Seguiva un brusio di ammirazione e stupore: in realtà non sapevo con precisione cosa facesse un astronomo, ma mi piaceva l’idea che avesse a che fare con stelle, astri, cielo e firmamenti. Per ora, scrutavo i décolletés. Mio padre, prudentemente, mi ricordò che con l’aritmetica e la geometria, io, non intrattenevo rapporti cordiali, solo doverosamente occasionali e, precisandomi che un astronomo lavora più coi numeri e con l’aritmetica che con le visioni siderali, mi indusse a scegliere più «terra terra». Mio padre era un ufficiale dell’Esercito, un valoroso soldato. Meritò una medaglia d’argento e una di bronzo al valore. Ma non era un retore della marzialità, non ostentava militarismi affettati: era ironico, anzi. E aveva capito che avrei voluto fare il militare come lui, ma non volevo ammetterlo per il solido principio dell’antagonismo figlio padre. Lo considerava, l’emulazione, adesso lo so, educativa e principale strumento di emancipazione. e, quindi, lo rispettava.

In verità, a me piaceva solo l’esteriorità della carriera militare: la pompa delle parate, le fanfare, l’eleganza soldatesca, lo sbatter di tacchi e il patriottismo inerziale che discendeva dalla militanza. Mio padre che le guerre le aveva fatte, e duramente combattute, era schivo di tutto l’orpello e mi spiegò quello che, inconsciamente, sapevo benissimo, che non sarei mai stato un buon militare perché avrei mal sopportato la disciplina tassativa e l’ubbidienza indiscussa. Stessa cosa mi ricordò con un solo sguardo azzurro (mio padre aveva gli occhi celesti) quando me ne uscii annunciando che volevo fare il vescovo. Così, direttamente, senza fasi interlocutorie, seminari e praticantati curiali, altari e sacrestie. Ebbi anche il periodo dello scrittore, del chirurgo, del poeta, dello scopritore di mondi sconosciuti, del principe, del corsaro, del giornalista, del rivoluzionario e, naturalmente del cow-boy. Per avviarmi a questa carriera, mi documentai e scoprii che la parola in italiano voleva dire «vaccaro» e rinunciai. In realtà io volevo fare «il cavaliere della valle solitaria» (indimenticabile Alan Ladd) non mungere le mucche. Così capii che io sceglievo, vagabondando nelle fantasie istigate da quello che leggevo, perché io volevo raccontare, interpretare, rappresentare. Tanto valeva decidere: volevo «fare» il teatro. E questo ho fatto. E non solo. Perché, da grande, volevo almeno tentare di restare bambino. Ma quando, finalmente, lo decisi, nessuno più mi chiedeva cosa volessi fare da grande. Era arrivato il tempo in cui ti chiedono il curriculum.

Privacy Policy Cookie Policy