lessico meridionale
Quanto mi manca il vero vicino di casa
Ormai solo condòmini: che nostalgia per «Maria D’Abbasso» che ci intratteneva da bambini a Bitonto
Mentre penso a scrivere il mio domenicale «Lessico meridionale» che, ne sono contento, state leggendo, sono solo in casa. E, solo, anche nel palazzo dove abito, un condominio di sedici appartamenti. La fine della settimana falcidia le presenze in città. Dico «la fine della settimana», al femminile, e non «il fine settimana», lo scorretto maschile che vorrebbe tradurre il termine «week-end», locuzione inglese beatificata nel perentorio calendario della vita moderna.
Anni fa ebbi notizia di una festa «Cento città d’Europa celebrano il Neighbour’s day». Fu, e, spero, sia ancora, la «Giornata dei vicini». La chiamerei il «giorno del prossimo tuo». È questo ricordo a farmi pensare che, a parte l’abituale solitudine domestica cui sono abituato, dato che vivo da solo, nessun altro, eccezion fatta per la veneranda professoressa in pensione e per la portiera, è, oggi, presente di tutto il consesso dei «casigliani», come direbbe Totò. Mi allarma il silenzio in cui sonnecchia il caseggiato? Mi preoccupa sapere di non avere a portata di voce o di squillo di campanello, alcuno cui rivolgermi alla necessità o con cui aiutarlo, nel bisogno suo? No, ci sono abituato. Vivo da anni nel palazzo e non ho stabilito che con pochissimi, relazioni somiglianti, non dico ad un’amicizia, ma almeno ad una amabilità di frequentazione. Anzi, il termine appropriato è «buon vicinato». I vecchi dicevano «meglio un buon vicinato che un cattivo parentato». Mi capitò di spigolare in sociologia che «il rapporto di vicinato è antico quanto l’uomo». Una sorta di welfare informale, uno scambio continuo, una forma di collaborazione che travalica i legami affettivi.
Annientato dai rapporti via Internet, dai telefonini e dall’affollamento delle piazze informatiche, fautore della chiusura verso l’interno dell’individuo, ci si narcotizza con la solitudine tecno-egoistica. A ben guardare, insomma, il vicinato è una forma di sopravvivenza sempre più latente. Di qui la necessità di recuperarlo. Prima che scompaia. Comunque, meglio di niente, se si riesce a salvare uno residuo di umanità anche nella città verticale, in questa metropoli impalata dove i vicini ci stanno sopra o sotto oltre che «dirimpetto» come si dice da noi.
Da piccolo, a Bitonto, in una casa antica dove abitavamo in tre piani un po’ scalcagnati e vetusti, ma tra i primi fabbricati provvisti dell’acqua dell’Acquedotto Pugliese, s’aveva una coinquilina, affittuaria di mio nonno, che si chiamava Maria e abitava nei «sottani» a piano terra. Costei era la «mater familias» di una nutrita e pigolante schiera di figlioli. Il «pater familias» faceva il pastore e tornava di rado dall’ovile rustico a quello cittadino, per cui Maria era la capofamiglia indiscussa. La mia compagine di zie trovava sempre in questa donna sorridente e faccendiera un appoggio, un consiglio, un aiuto, la cenere per il bucato, una tazza di sale, una «carta di pepe». Un «appatimo» per i bambini. (a Bari, appatimare, ricordo, vuol dire intrattenere, distrarre).
Era la vicina per eccellenza, la cara presenza fidata, Maria D’abbasso. Per tutti gli anni dell’infanzia fui convinto che il suo cognome fosse «D’abbasso». E già, perché la buona vicina era designata con l’indicazione della residenza e non con il suo cognome anagrafico. Forse anche lei ricambiava l’uso e chiamava le mie zie «Le signorine di sopra». Non l’ho mai saputo. Di fatto, nelle perticone di cemento in cui abitiamo oggi i «d’abbasso» non esistono più e il vicinato riesce a malapena a coagularsi nelle riunioni di condominio che, per indole funzionale hanno il compito di regolare la vita pratica della comunità degli abitatori e il vicino diventa «condòmino». E i condòmini non si amano, a malapena si rispettano.
Troppe questioni li dividono, troppi panni stesi che gocciolano li rendono ostili, troppi cani tediano le sieste, troppe auto sono parcheggiate sulla «Striscia mia», troppo si paga per l’ascensore pur abitando al secondo piano rispetto «a quei signori del settimo che vanno sempre su e giù». E, poi, troppo rumore fa la signorina che abita sopra, quando rientra a tarda ora e disturba «tutto il palazzo» col ticchettio di quei tacchi a spillo e sveglia «noi che dobbiamo andare a lavorare la mattina dopo. Quella signorina che fa le ore piccole… Non mi faccia parlare, signora mia». In quest’ultima frase serpeggiava invidia mista a malizia.
Vorrei avere un vicino anch’io, penso. Ma per vicino intendo una mescolanza di amicizia, solidarietà, complicità, vissuto comune, un vicino che sia un po’ «signora dirimpetto» e un po’ esperto in idraulica per hobby, che sappia cucinare e abbia sempre un po’ di basilico in più, un vicino o vicina che sappia fare le punture e che ami cantare in coro, se decidiamo di fare una festa. Anche se è stonato faremo tutti, io e gli altri vicini, finta di non accorgercene. E invece ho solo condòmini. Che non si «appatimano», testardi. E si lamentano di tutto e, anche se ascolto un disco della Callas, sono capaci di dire che stecca.